Fosse solo che «vinum non habent», ma il fatto è che non hanno neppure il pane le migliaia di nuovi poveri italiani e non che si rimettono in fila come già i loro nonni. Ma allora c’era stata una guerra, distruzioni e morti. Oggi c’è una crisi sanitaria che da più di un anno imperversa, una pandemia che non è una guerra ma contro la quale, pare, non sappiamo «prendere le misure» se non quelle di limitare i contatti, disordinatamente sconvolgendo la vita sociale.

Una pandemia il cui conto non fa che aumentare la triste contabilità dei morti ma anche quella più prosaica dell’economia.
L’Italia naviga a vista, in testa nelle statistiche dei contagi (numero 7 al mondo) e, soprattutto, in quella dei morti (numero 6 al mondo per numero totale). Abbiamo più decessi per 100mila abitanti di ogni altro paese al mondo (183,3), dopo la Cechia, l’Ungheria, il Belgio e la Bulgaria, alla pari con la Gran Bretagna (tra i paesi con più di 5 milioni di abitanti). E siamo nel pieno di una nuova «ondata», senza avere appreso e cambiato nulla.

Un anno fa eravamo stati i primi, e si capiva. Persino gli altri ci avevano compatito. Poi hanno saputo fare di meglio in tanti, come gli USA di Trump, il Brasile di Bolsonaro e la Gran Bretagna di Boris Johnson. Certo, l’abbiamo «sfangata», la prima volta: «ci vuole il tracciamento», si diceva. Nulla. Ci siamo inventati le regioni a colori, chiusure di qua e di là, ma da dopo l’estate abbiamo continuato a lavorare (più o meno), con chiusure tanto differenziate che hanno finito per sembrare arbitrarie (scuole aperte, no, chiuse, qui sì, là no). Ma, da settembre, non è più cambiato nulla: dal ministro della salute in giù, tutti a stringersi nelle spalle, perché «a da passà a nuttata».

Sì, se Dio vuole, sono arrivati i vaccini. Ma invece di provvedere al mega-finanziamento per la loro produzione (che hanno fatto in USA ma non in Europa) o, almeno, per la loro distribuzione, siamo andati al supermercato dei vaccini come un qualunque consumatore e, quando abbiamo trovato la corsia vuota, ci siamo lamentati con la cattiva sorte e con «le multinazionali».

Quanto ha fallito l’Europa con i vaccini va persino oltre la cecità mostrata nel caso della crisi finanziaria del 2008, in cui invece di rispondere con più sostegno si è pensato bene di chiedere «più austerity». Andrà indagata, da studiosi e osservatori, questa incapacità della «macchina Ue» di capire come va il mondo e come rispondere, una combinazione micidiale di burocratismo e miopia politica da far impallidire ogni confronto storico.

Ciò che fa pena oggi rilevare – e il colore giallo-rossastro-verde di questo esecutivo non fa che accentuare il disagio – è che non solo la pandemia è stata gestita male, dal punto di vista sanitario e organizzativo (belle le lodi della «resilienza» del nostro sistema ospedaliero), ma che le conseguenze delle misure prese erano ben prevedibili e che, quindi, prevenire era possibile. Perché non è vero che la pandemia colpisce tutti nello stesso modo. E perché non è vero che le misure di «contenimento» colpiscono tutti nello stesso modo.

Il 95% dei morti da Covid-19 sono anziani, ultrasettantenni, con patologie pregresse. I rapporti dell’Osservatorio della Salute da anni ci dicono che sono soprattutto i più poveri, i meno istruiti, i più disagiati che ne soffrono. Un giorno, un’indagine ci rivelerà, forse, qual è stato il profilo sociale dei morti da Covid, ma non facciamo fatica ad immaginarlo (studi ce ne sono già, e sono allarmanti).

L’Istat rileva che nel 2020 i poveri assoluti sono stati un milione in più di un anno prima (per un totale di 5,7 milioni). Quando avremo i numeri, sapremo anche quante sono le persone a rischio di povertà: erano già più di un quinto della popolazione italiana nel 2019 (e, di loro, un terzo era in condizioni di deprivazione materiale). Le file per il pane ci raccontano con raccapriccio che saranno molte di più, ora. Non raccontiamoci, però, che la pandemia è stata una «grande livellatrice» – solo certi storici possono parlare così delle grandi pandemie, con sguardo superficiale.

«A livella», in questo caso, prima di bussare alla porta, seleziona il quartiere, chiede informazioni sul reddito e lo status, e poi entra. I «ristori» magnanimi distribuiscono oboli benvenuti, ma non intaccano le disparità a monte. Si chiudono musei, cinema e teatri – «ah, saltimbanchi si nasce, saltimbanchi si muore» – ma le chiese restano aperte.

Si sono aperte ferite che lasceranno il segno e che un saggio Piano di Ricostruzione (e resilienza?) non potrà rimarginare se immaginato solo per rimettere in sesto un sistema economico squilibrato, accompagnato da politiche sociali all’insegna del mercato e del «merito» (e delle spese militari).

Dovrebbe essere occasione per ricostituire comunità, idee, prospettive, rimettere in gioco vocazioni e iniziativa, eliminando privilegi. Che, come la storia insegna, hanno sempre trovato il modo di preservarsi, sapendo che «la morte non guarda in faccia nessuno», perché guarda al portafoglio.