Quel sottile confine tra world music e pop, che già in passato ha portato alla ribalta decine di stelle in musica più o meno durature, continua ad essere una striscia di terra davvero feconda. Ieri come oggi, a portare brio e spesso una frivolezza che non guasta nel compartimentato e a tratti asfittico mondo del mainstream, sono state proprio le aperture ai mondi altri. Va sottolineato poi quanto questo accada in modo molto più marcato all’estero, a differenza della penisola. Dalle nostre parti non a caso il concetto, e anche il mercato della musica del mondo, non si è mai imposto sui grandi numeri. Lo testimoniano anche le rassegne e i festival di settore, che seppur presenti in quantità discreta sul territorio italico, non hanno di certo raggiunto la potenza di kermesse straniere come il Womad e il Womex, che all’estero vanno per la maggiore.

Da questo terreno fertile quindi, arriva un’altra artista che risponde al nome di Hindi Zahra, la quale nei prossimi giorni terrà una doppia data in Italia, il 28 ottobre a Roma presso l’Auditorium Parco della Musica e il 29 al MediMex di Bari. La cantante marocchina ma parigina d’adozione, non è una novità assoluta per il nostro paese: già nel 2010 tenne alcuni concerti in occasione dell’uscita del suo primo disco intitolato Handmade. Il breve tour in arrivo è giustificato dalla presentazione della seconda pubblicazione Homeland (Oversoul Records/Parlophone -Warner France), lavoro che si dipana in undici brani che manifestano in pieno la sua doppia identità, come sottolinea lei stessa: «Sono nata e cresciuta in una famiglia di musicisti nel sud del Marocco. Mio padre era un militare. L’ho seguito a Parigi, città dove trovai il primo lavoro, al museo del Louvre. Lì ho avuto il mio primo incontro con l’arte, con la pittura soprattutto… Sono anche una pittrice. E oggi vivo tra Parigi e il Marocco».

Una duplice appartenenza culturale che è il connotato principale della sua musica, percezione che si avverte da subito. Homeland infatti implementa elementi tipici della tradizione del West Africa e in contemporanea reminiscenze di classic rock e musica afroamericana. Sensazione confermata dalle parole della Zahra: «L’arte era di casa in famiglia: mia madre era cantante e attrice e gli zii che vivevano con noi, erano anche loro cantanti e musicisti. Già da bambina quindi la musica ha avuto un valore importante nella mia quotidianità, in casa tra i tanti dischi che suonavano, si ascoltavano Led Zeppelin e Bob Marley. La cosa che forse mi impressionò maggiormente, fu ascoltare il canto in lingue differenti. Col passar del tempo ho iniziato a pensare che forse la musica poteva diventare una parte importante della mia vita. Musicalmente sono stata influenzata da gente come Miriam Makeba, Césaria Evora, Marvin Gaye e Nina Simone».

Nomi che all’ascolto del suo primo disco, sembrano rincorrersi tra un brano e l’altro in modo più o meno celato. Di Handmade dopo un lustro dalla sua uscita, ce ne parla così: «Il titolo venne fuori perché davvero avevo fatto tutto per conto mio e con i miei tempi. Ero da sola e mi sono dovuta occupare sia della produzione che degli arrangiamenti, e infatti mi ci sono voluti due anni per registrarlo. Per presentarlo ho girato il mondo in tour per due anni mezzo, tenendo circa quattrocento concerti. La canzone Beautiful Tango è il brano maggiormente conosciuto in Italia».

Una ballad dalla melodia accattivante e dalle cadenze quasi gitane, che la fece entrare nel cuore di molti e che riuscì anche ad accattivarsi le simpatie di parte della critica, al punto tale che il magazine Wire la definì, forse audacemente, come potenziale erede di Billie Holiday. Oltre i titoli e i giudizi urlati, la talentuosa cantante marocchina, dopo aver terminato assieme alla band il lungo tour, in modo saggio e razionale ha poi intrapreso una serie di percorsi necessari per giungere al secondo disco: «Dopo essere stata in giro per così tanto tempo, sono tornata a casa, anche dal punto di vista sonoro. Ho pensato che fosse importante per me tornare alle radici della cultura musicale marocchina. Ma presto mi sono resa conto che il mio suono non è legato esclusivamente a un luogo o a uno stile in particolare. Infatti questo album è influenzato da ritmi brasiliani, da sonorità cubane, capoverdiane e anche iraniane. Alcune canzoni sono cantate in amazigh, un dialetto marocchino. Nelle prime fasi di registrazione, ho iniziato a lavorare con il percussionista Rhani Krija con un microfono installato nella medina di Riad. Ho trascorso un anno circondata dagli strumenti, cercando di modellare le canzoni nel modo migliore. Per cercare l’ispirazione giusta, mi sono avventurata fuori da Marrakech, nella zona delle grotte tra Essaouira e Agadir, per poi arrivare in cima alle montagne, ma vicina all’oceano. To the Forces, che è la canzone con cui apro il disco, riflette in pieno queste esperienze di viaggio. Mi sono mossa molto e questo ha influito ulteriormente sul lavoro: sono stata anche a Cuba, in Egitto, in Giordania e in Andalusia, dove ho capito che direzione dare alle chitarre. La registrazione si è chiusa a Parigi. Sintetizzando, posso dire che questo processo di scrittura musicale è stato in contemporanea anche un viaggio e una ricerca».

Ed è proprio l’incisione a cui si riferisce forse l’attimo migliore e più ispirato dell’intera sessione. Una melodia ondulante e sinuosa in cui a contraltare della voce si mette in evidenza un suono smaccatamente desert blues, che evoca le dune tuareg dei Tinariwen. Tutto il prosieguo di Homeland è chiaramente incentrato sulle prestazioni vocali della leader, ma ha indubbiamente un peso la band che dà corpo e forma al tutto. Dal vivo è accompagnata da un sestetto composto da Jérome Plasseraud e Paul Salvagnac alle chitarre, David Dupuis a tastiere e fiati, Aurélien Calvel al basso, Raphael Seguinier alla batteria e Ze Luis Nascimento alle percussioni. La composizione della formazione le permette di dare vita ai suoni pop di marca carioca di Silence e Can We Dance, al rock polveroso in stile Calexico di The Blues e alla struggente ballata finale The Moon Is Full, in cui la cantante fa emergere atmosfere jazz degne davvero della migliore chanteuse parigina possibile. La duttilità sonora della Zara si evince ulteriormente anche in un altro passaggio illuminato: Any Story è un pop semi psichedelico, al cui interno affiorano citazioni sonore indie-pop che avrebbero diritto di residenza anche nella città di Portland.

In bilico tra una terra e un’altra, tra una non appartenenza e una identità cosmopolita figlia dei tempi che corrono, la Zahra certifica ulteriormente questa attitudine, rammentandoci anche le sue esperienze cinematografiche: «Lo scorso anno ho avuto la possibilità di partecipare a ben due pellicole. La prima è Il padre di Fatih Akin, che è stato presentato alla settantunesima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. La seconda è The Narrow Frame of Midnight della regista Tala Hadid. Sono state delle esperienze nuove e davvero entusiasmanti! Per me ha rappresentato un modo nuovo di esprimermi. Nonostante fossi una debuttante, sono stata ben accolta ed ero circondata da persone che mi hanno fatto sentire a mio agio, senza problemi».