Alla Scuola di musica popolare di Testaccio si suona con una spada di Damocle sulla testa. Il Comune di Roma a guida Cinque Stelle, trincerandosi dietro un magistrato della Corte dei Conti che ha fatto le pulci agli affitti concordati dalle precedenti amministrazioni, reclama il pagamento di oltre 700 mila euro, pena la «restituzione dei locali».
Le attività non paiono risentirne, e neppure lo spirito dei partecipanti, docenti e allievi di ogni età. Per tastare il polso della situazione, me ne vado ad ascoltare la lezione di Giovanna Marini. La «pasionaria» della musica popolare italiana è una dei pochissimi rimasti del gruppo di musicisti che nel 1975 decisero di inventarsi una scuola di musica anti-accademica e per diversi aspetti eretica rispetto alla tradizione classica.

Oggi ne è presidente onoraria e puntualmente, a ottant’anni appena compiuti, arriva dai Castelli Romani a insegnare canti di lotta, della tradizione religiosa, contadina o operaia raccolti in ogni angolo d’Italia.
Comincia con un’Ave maria sarda sospesa tra sacro e profano. Ne esistono due versioni, una di Orgosolo e un’altra di Santo Lussurgiu, ed è quest’ultima che ha trascritto in musica, dalla tradizione orale, e ora ripropone agli allievi romani. Fa parte di un repertorio di testi che «non si possono cantare in chiesa», spiega durante una pausa, «proibito dalle autorità ecclesiastiche perché i testi erano sfuggiti al controllo». In quest’Ave Maria, ad esempio, protagonista non è Gesù Cristo ma la Madonna: si piange quest’ultima «che è la vera vittima» e non il primo, stravolgendo il canone ecclesiastico. Giovanna Marini ride divertita: «In un altro canto sullo stesso tema, siciliano, si dice: povero figlio mio, come facciamo che non abbiamo neppure la mutua?», mescolando la metafisica con l’agra attualità terrena.

Giovanna Marini e gli altri

Giovanna Marini, più di ogni altro musicista che è passato da queste parti, ha lasciato il segno sulla Scuola di musica popolare di Testaccio che alla metà degli anni Settanta contribuì a creare: irriverente e allo stesso tempo ancorata alla tradizione, rigorosa ma poco accademica, politicamente scorretta e per questo all’avanguardia.
I suoi recital sono acclamati in Francia, dove tiene pure corsi all’università parigina di Saint Denis, e in Svizzera, ma nella sua Roma rischia lo sfratto per via burocratica. Nel presentare un canto contadino siciliano, in un dialetto così ostico da prestare il fianco a interpretazioni diverse, dice: «se l’autore l’avesse presentato a un esame di conservatorio, sarebbe stato bocciato, come accadde a Giuseppe Verdi che veniva dalla campagna e scriveva quello che ascoltava». Il celebre compositore italiano fu giudicato «inetto alla musica» e solo la storia gli darà ragione. Il problema, per Giovanna Marini, non era quest’ultimo ma le sue origini contadine, da cancellare. «Sono trucchi della cultura ed è bene conoscerli», spiega.

Dalla pratica alla teoria
Quando un gruppo di musicisti si insediò a via Galvani, poco lontano dal Mattatoio nel popolare quartiere di Testaccio, non aveva intenzione di farne una sorta di conservatorio popolare. Al contrario, provarono ad applicare un metodo sperimentale, «tutto fondato sulla pratica». Se ne andarono in Ungheria a studiare alla scuola di Béla Bartók e puntarono su un’«educazione basata sull’oralità, sullo svegliare la musicalità e sull’imparare il ritmo attraverso il canto, senza studiarlo». Oggi si utilizza, in particolare per i più piccoli, il metodo ideato dal compositore e pedagogista svizzero Emile Jacques Dalcroze, che parte dal corpo e dal movimento per arrivare alla musica.
È questo approccio poco accademico alla musica, che parte dalla pratica e non dalla teoria, il tratto peculiare della Scuola di musica popolare di Testaccio, ed è quello che consente a persone di ogni età di avvicinarsi ad essa, pur se ignare di scale e partiture. È questo il patrimonio che per decisione il magistrato della Corte dei Conti che ha stabilito che l’affitto pagato dal 2004 a oggi era inferiore ai canoni di mercato non ha quantificato. Men che meno lo ha fatto il Dipartimento comunale per il patrimonio quando ha inviato il preavviso di pagamento o di sfratto. Così, senza alcuna valutazione di merito, la Scuola di musica popolare di Testaccio rischia di essere una delle vittime più illustri dei principi di austerità applicati su scala locale.
Nella memoria difensiva presentata dall’avvocato Arturo Salerni si fa presente che l’associazione che gestisce la scuola si è vista assegnare i locali proprio dal Comune, nell’ormai lontano 1997, il canone è stato contrattato con quest’ultimo e la Scuola si è accollata più di centomila euro di spese per la ristrutturazione. «Fummo invitati a lasciare i locali che avevamo in affitto perché l’allora giunta di centrosinistra, guidata da Francesco Rutelli, stava cercando di riqualificare l’ex Mattatoio», racconta Gaetano Delfini, insegnante di tromba. Gli edifici cadevano a pezzi e loro li hanno resi di nuovo fruibili: le stanze sono state insonorizzate, i bagni e gli impianti elettrici rifatti, nella sala concerti è stato rifatto addirittura il tetto, che era crollato. Il tutto è avvenuto sotto la supervisione della Soprintendenza, «senza modificare nulla della struttura originale». Il giorno in cui dovessero riconsegnare i locali, tutto quello che hanno costruito può essere smontato e portato via.
A quei tempi l’ex Mattatoio era in pessime condizioni. Nel 1989 un gruppo di attivisti lo aveva occupato e ne aveva fatto un centro sociale, il Villaggio Globale, noto per le battaglie sull’immigrazione e antiproibizioniste. Oggi la bandiera rossa piantata in quei giorni, sbiadita dal tempo e dalle intemperie, ancora sventola, anche se il centro sociale occupa molto meno spazio di un tempo. La Scuola di musica popolare si trova proprio all’ingresso principale e loro, senza troppa ironia, si considerano un po’ i «guardiani» dell’ex Mattatorio. Passando oltre, si entra nel museo di arte contemporanea Macro e nei padiglioni della facoltà di Architettura dell’università Roma 3. Più avanti si arriva alla Città dell’altra economia. Ogni sera, sono loro a chiudere i cancelli della struttura.
«Il giudice ci ha imputato persino il fatto di avere numerosi dipendenti, il che testimonierebbe un’attività a fine di lucro. È un paradosso: siamo accusati di fare contratti regolari, invece di tenere le persone al nero o pagarle con i voucher», ironizza il presidente dell’associazione Vincenzo Russo. Ma l’istituto, spiega la memoria difensiva inviata al Comune, utilizza i soldi delle rette per pagare i docenti e per le spese di gestione, non per fare utili come le altre scuole private.

Cori e bande
In quarant’anni di vita, la Scuola di musica popolare di Testaccio ha ospitato centinaia di musicisti, visto nascere gruppi e bande. I fondatori provenivano da una tradizione culturale e politica eretica. Qui ricordano ancora quanto accadde al Festival dei due mondi di Spoleto nel 1964: ad ascoltare il Nuovo Canzoniere del Lazio, «una donna in platea si alzò urlando, indignata, “non sono venuta qui per ascoltare la mia donna di servizio”», e ne nacque un parapiglia che Giovanna Marini ha raccontato così: «Finalmente siamo in scena di fronte a una sala tutta piena. Cominciamo a cantare. Silenzio tombale: sono tutti incuriositi da questi canti, a partire dal Bella Ciao di Giovanna Daffini. Via via che si procede, crescono i commenti, mormorati, qualche volta anche detti ad alta voce. Alla strofa di Sandra Mantovani “…e nelle stalle più non vogliam morir…” una voce di donna url : “Posseggo duecento anime e nessuna di loro è morta nelle stalle!”. Seguono una serie di “Buuuu” dal loggione. Finalmente si alza Michele Straniero e intona Gorizia. Alla strofa Traditori signori ufficiali / voi la guerra l’avete voluta / scannatori di carne venduta / questa guerra ci insegni a punir succede l’ira di Dio. Una voce si leva dalla platea : “Evviva gli ufficiali” seguita da cori di “Evviva l’Italia”. Dal loggione arriva, una risposta immediata e viene lanciata in platea una sedia, mentre si intona Bandiera Rossa. Dal basso rispondono con Faccetta Nera. Spintoni a destra e a sinistra. Tutt’intorno, la gente continua a discutere sempre più animatamente. Insomma, si menano».

Jazz, rock e folk italiano

La Scuola di musica popolare oggi può vantare numeri di tutto rispetto: 900 allievi, una Stradabanda con cinquanta elementi, il Coro delle mani bianche, composto da disabili e sordomuti, un’orchestra d’archi aperta, laboratori jazz, rock e rhytm&blues, una biblioteca con 9 mila titoli e un fondo con manoscritti inediti del XVIII e XIX secolo, 56 dipendenti fissi e 22 a tempo determinato, 80 docenti.
Elisabetta di Giovambattista suona il basso elettrico e ha formato una band di musica grunge. Antonello Raponi, 28 anni, spiega perché la Scuola non deve cedere: «qui non si insegna a diventare professionisti, come in un qualsiasi istituto privato, ma si trasmettono dei valori che stiamo perdendo, quali la cooperazione e la collaborazione». Nei suoi spazi ci si può incontrare, entrare in una banda o formare un proprio gruppo.

La politica dei 5 Stelle
Quando è cambiata la stagione politica, la Scuola è stata considerata alla stregua di un occupante abusivo qualsiasi. Non è la sola istituzione sociale o culturale a rischio nella capitale: la giunta pentastellata guidata da Virginia Raggi ha approvato una delibera, freddamente ricordata con un numero, «la 140», che prevede lo sgombero di decine di attività ospitate in luoghi di proprietà comunale, di regola abbandonati e risistemati dagli occupanti. Nello stesso ex Mattatoio, identica minaccia incombe sui kurdi, rifugiati politici, dell’associazione Ararat.
Per la fredda burocrazia del Dipartimento patrimonio, la Scuola di musica popolare deve versare la differenza tra l’affitto stabilito all’epoca e quello rivalutato a prezzi di mercato. In totale fanno 733 mila euro. Una cifra impossibile da sostenere, per la Scuola. Difficile che non l’abbia immaginato, chi ha fatto i conti senza tener conto di quanto la Scuola abbia dato alla città, in quarant’anni di attività.