Siamo così arrivati a dieci anni dalla straordinaria vittoria referendaria del 12-13 giugno 2011 sull’acqua, i beni comuni e il nucleare. In realtà, c’è ben poco da celebrare e tantomeno da festeggiare, in particolare per quanto riguarda il rispetto dell’esito referendario in tema di acqua pubblica. I due referendum sono stati completamente disattesi: la norma abrogata che stabiliva la cosiddetta «remunerazione del capitale» sulle tariffe, cioè la garanzia di ottenere profitti dalla gestione del servizio, è stato semplicemente riproposta, con un’operazione scandalosa di semplice cambiamento della sua denominazione e con uno spostamento irresponsabile della determinazione della tariffa, da una sede politica, il Ministero dell’Ambiente, ad una «tecnica», l’Agenzia nazionale di regolazione del servizio idrico ( e di molti altri servizi pubblici). Per quanto riguarda l’altro referendum, quello che apriva politicamente la strada alla ripubblicizzazione del servizio idrico, a parte la scelta lodevole del Comune di Napoli, in realtà, i processi di privatizzazione sono ulteriormente avanzati in quest’ultimo decennio, promossi in particolare nel Centro-Nord dalle 4 grandi multiutilities IREN, A2A, HERA e ACEA.

Intendiamoci: non che il pronunciamento referendario sia stato ininfluente. Senza di esso, già alla fine del 2011, ci saremmo trovati di fronte alla completa privatizzazione del servizio idrico, superando di colpo anche le gestioni delle società a totale capitale pubblico esistenti ( vedi, ad esempio, Torino e Milano). Il risultato complessivo, però, è stato quello di aver rallentato le privatizzazioni, non quello, voluto da noi, di arrivare alla ripubblicizzazione del servizio. A questa situazione si è giunti, prima di tutto, perché le classi dominanti non potevano accettare che fosse messo in discussione uno dei pilastri fondamentali delle politiche neoliberiste e di austerità, appunto il ridimensionamento dell’intervento pubblico e l’apertura al mercato di settori e servizi riservati precedentemente al primo. Pur essendo state sconfitte politicamente e culturalmente, le stesse hanno scientemente utilizzato la crisi del 2011-2012, quella del rischio del default e dell’insostenibilità del debito pubblico, per affermare che la salvezza dalla bancarotta rendeva impossibile trovare le risorse per nuovi investimenti pubblici e, anzi, imponeva di doverne trovare di aggiuntive, e, dunque, anche di rilanciare le privatizzazioni.

Oggi il copione, pur nelle mutate condizioni, rischia di ripetersi: nella fase, come ripete spesso Draghi, in cui ci sono risorse per dare e non da prendere, esse sono, però, finalizzate, ad una «modernizzazione» del Paese, che si può realizzare solo con la guida delle imprese e del mercato, quindi ridimensionando ulteriormente il ruolo dei beni comuni, dare ulteriore spazio alle privatizzazioni, attaccare nuovamente il lavoro e i suoi diritti, facendo diventare «normale» il contratto a termine e riducendo la «garanzia» del lavoro a tempo indeterminato. Come leggere diversamente il fatto che il PNRR destina ben poche risorse all’acqua e alla tutela del territorio e si prodiga, invece, nell’indicare la via maestra delle riforme del servizio idrico, intendendo con ciò la consegna del Mezzogiorno alle grandi multiutilities, di per sé sinonimo di efficienza e modernità? Oppure l’idea di dover fermare il blocco dei licenziamenti e l’immissione di più di 20.000 nuovi addetti nella Pubblica Amministrazione, tutti con contratti a termine?

In ogni caso, anche noi abbiamo imparato diverse cose in questi dieci anni. E cioè che ci serve la costruzione di connessioni e convergenze tra vari movimenti e soggetti sociali per riuscire ad avanzare una lettura e un’iniziativa di carattere generale e alternativa, in grado di contrastare la pervasività del pensiero dominante, ancora fermamente permeato dall’ideologia neoliberista. Che occorre declinare il tema dell’acqua e dei beni comuni all’interno dell’aggressione al bene comune «ultimo», quello della possibilità della vita nell’intero pianeta, ben evidenziato dall’emergenza climatica e ambientale e dalla stessa pandemia, anche in relazione con nuovi soggetti e temi che sono emersi in questi ultimi anni.

Per questo, per noi, il decennale del referendum è innanzitutto una scadenza di mobilitazione e lotta. Lo faremo con tante manifestazioni territoriali, nei giorni che precedono il 12 e 13 giugno, poi il 12 giugno con una manifestazione nazionale a Roma, con appuntamento alle 15,30 in piazza dell’Esquilino, e il 13 giugno con un convegno online nel quale chiamiamo a discutere i protagonisti dei processi di ripubblicizzazione del servizio idrico in Europa e nel mondo, da Parigi a Berlino e altri ancora. Perchè le nostre ragioni sono ancora più forti di quelle di dieci anni fa: a noi l’intelligenza e la mobilitazione per farle valere. Insomma, buon decennale dei referendum, perché può essere un nuovo inizio.

L’autore partecipa al Forum italiano Movimenti per l’Acqua