La chiamata di correo per la borghesia imprenditoriale italiana, invocata da Pierluigi Ciocca su questo giornale domenica scorsa, è fondamentale per riequilibrare un dibattito pubblico sempre troppo riverente verso la classe capitalistica, e sempre pronto a trovare facili capri espiatori della malconcia economia italiana: la cattiva pubblica amministrazione e i suoi dipendenti fannulloni, il corporativismo dei sindacati e l’interminabile lista di mancate riforme in senso liberale.

Ciocca evidenzia bene i limiti del contesto istituzionale europeo che hanno ostacolato una crescita economica trainata dalla domanda: le assurde regole di bilancio, il taglio degli investimenti pubblici, il neo-mercantilismo tedesco. Aggiunge poi che la responsabilità del declino italiano va ricercata nella passività delle imprese che, specialmente in seguito alla pandemia, sembrano essersi convertite a ciò che possiamo definire un utilitaristico “keynesismo per ricchi”: esse invocano e pretendono che lo Stato spenda generosamente in sussidi a loro favore, dimenticando che fino a ieri avevano demonizzato l’intervento pubblico e le eccessive tutele a favore dei lavoratori.

È dunque necessario evidenziare lo strabismo della nostra classe imprenditoriale, propensa a sfruttare la via facile del guadagno attraverso l’accaparramento di sussidi pubblici, l’evasione fiscale e la speculazione finanziaria, e sempre pronta a ricorrere alla socializzazione delle perdite, per citare un famoso adagio.

Ma il ripiegamento della borghesia italiana verso la ricerca di facili profitti speculativi, a danno dell’innovazione tecnologica e del rischio d’impresa, è imputabile soltanto a una mancanza di visione, o non esprime una razionalità coerente con gli attuali rapporti di forza fra le classi sociali? Il movente dell’impresa capitalistica, come è noto dai tempi di Adam Smith, è la ricerca del profitto individuale, non già l’utilità collettiva o l’altruismo. Se l’investimento produttivo, anche innovativo, ha perso la sua centralità lo si deve con ogni probabilità a un quadro normativo ispirato alla deregolamentazione finanziaria e al laissez-faire, corrispondente a un consapevole abbandono di qualunque visione sistemica, programmatrice dell’economia.

Le due fasi storiche che giustamente Ciocca indica come alternative virtuose a cui ispirarsi (l’età giolittiana e il “miracolo economico”) videro sì le imprese “frustate dalla concorrenza”, ma anche incalzate dal movimento dei lavoratori e da uno Stato che allargava i suoi compiti, avocando a sé un ruolo tutt’altro che secondario nell’allocazione delle risorse. Ne derivò non a caso, specialmente negli anni Sessanta e Settanta, un inedito rafforzamento economico e politico della classe operaia, tale da mettere in pericolo il dominio sociale della borghesia.

Se insomma si vogliono capire (e combattere) le dinamiche involutive del capitalismo italiano e le storture cui esse condannano l’intero Paese, è di politica, e dunque di potere che bisogna parlare. Lo sciopero degli investimenti, la rottura del patto fiscale da parte delle élites economiche e la rincorsa alla rendita finanziaria sono risposte di natura politica che il capitalismo ha fornito di fronte all’offensiva democratica del Novecento, e sono opzioni sempre a disposizione del capitalismo. Non sono dettate da miopia economica, ma da lungimiranza politica.

Ormai non solo gli economisti, ma anche gli stessi attori finanziari (viene in mente Warren Buffet) hanno pubblicamente riconosciuto l’esistenza di una lotta di classe dall’alto imposta e combattuta dai gruppi dominanti, la cui coscienza di classe non andrebbe dunque sottovaluta. La grande borghesia sa condurre molto bene i propri interessi.

Se si riconosce che per lo sviluppo equilibrato del Paese sarebbe essenziale la messa in campo di politiche keynesiane, la sinistra, più che sposare un’agenda illuminista, dovrebbe prima di tutto riflettere su quali siano le condizioni in grado di imporre all’avversario di classe l’adozione di misure keynesiane.

A fronte dello sciopero degli investimenti da parte dei privati, bisogna mettere in campo un vasto programma di pianificazione economica pubblica e democratica. A fronte dello sfruttamento selvaggio del lavoro come via privilegiata del profitto, bisogna promuovere il potere sindacale dei lavoratori (lo ha riconosciuto come prioritario addirittura Joe Biden), così da portare sul piano dell’innovazione e del rafforzamento del mercato interno la sfida per la competitività delle nostre imprese.

Appare illusorio attendersi un generoso ravvedimento da parte del capitalismo italiano. Questo si muove in base a un programma d’azione ben preciso, e può contare su forze sufficienti per attuarlo. Condizioni assenti dalla parte opposta della barricata, quella del lavoro, e che sarebbe urgente ricostruire.