Le neuroscienze a corto di idee
Big Science Nonostante il gran numero di ricerche, sul cervello sappiamo ancora poco. Colpa di metodi sperimentali ancora imprecisi e di progetti troppo ambiziosi. E dopo mesi di polemiche cambio al vertice dello Human Brain Project
Big Science Nonostante il gran numero di ricerche, sul cervello sappiamo ancora poco. Colpa di metodi sperimentali ancora imprecisi e di progetti troppo ambiziosi. E dopo mesi di polemiche cambio al vertice dello Human Brain Project
Lo studio del cervello non è mai stato così popolare. Basta una statistica grossolana per rendersene conto: solo nel 2016, sulla banca dati www.pubmed.gov sono censite quasi 5000 pubblicazioni scientifiche contenenti la parola «neurone» nel titolo o nell’abstract. Un po’ ovunque nascono nuovi dipartimenti di ricerca sulle neuroscienze nei quali lavorano medici, biologi, psicologi ma anche chimici, informatici, elettronici e fisici. In anni in cui è difficile raggranellare denaro per la ricerca di base, sia l’Unione europea che gli Usa hanno lanciato programmi di ricerca ambiziosi dedicati alla materia grigia. Il boom è dovuto soprattutto ai nuovi strumenti di ricerca con cui gli scienziati raccolgono dati e informazioni in quantità inimmaginabili fino a poco tempo fa.
LA RECENTE ESPLOSIONE delle neuroscienze, però, non incontra un entusiasmo unanime. Alcuni scienziati ritengono che l’acquisizione di nuovi dati e la comprensione del funzionamento del cervello non stiano procedendo di pari passo. Nonostante la grande mole di informazioni disponibili, la nostra abilità nell’interpretarle è ridotta. Conosciamo così poco i meccanismi alla base del pensiero che non sappiamo nemmeno verificare se i modelli teorici riproducano o no il comportamento reale del cervello.
Per illustrare questo limite, un informatico di Berkeley (California) e un neuroscienziato della Northwestern University di Chicago hanno studiato una sorta di «cervello giocattolo»: un microprocessore artificiale la cui architettura, cioè la rete di collegamenti tra i vari componenti elettronici, è ben nota. Un cervello elettronico è più semplice di uno reale. E soprattutto è stato progettato dall’uomo. Conoscendo da vicino ciò che viene analizzato, si può dunque stabilire se i metodi adottati dai neuroscienziati ci azzecchino o no.
IL PROCESSORE scelto dai due scienziati, Eric Jonas e Konrad Paul Kording, è lo storico «Mos6502». Forse la sigla non dirà niente, ma per molti è stato il primo computer visto dal vivo, magari a casa di qualche amico più fortunato. Il Mos6502 infatti era al cuore dei primi pc Atari, degli Apple I e II e degli amatissimi Commodore. Jonas e Kording hanno accumulato dati osservando il processore svolgere le sue attività tipiche: far girare videogame d’epoca come «Donkey Kong» o «Space Invaders». Con solo qualche migliaio di transistor, decifrare il Mos6502 dovrebbe essere un gioco da ragazzi. Dal canto loro, le unità di base del cervello (i neuroni) sono un centinaio di miliardi.
Ma cosa vuol dire «capire» il cervello? In effetti, il nostro organo più complesso può essere esaminato da vari punti di vista. Se ne può ricostruire la rete dei collegamenti tra i neuroni, oppure l’organizzazione in «moduli» specializzati, o ancora studiare l’impatto di un danno locale sul funzionamento generale del cervello. Tutti questi metodi, comunemente utilizzati dai neuroscienziati, dovrebbero aiutare a identificare il ruolo e la «logica» che regola l’attività neuronale.
Invece, le analisi dei dati applicate al vecchio microprocessore e pubblicate in gennaio sulla rivista «Public Library of Science» sono state sconfortanti. Malgrado i dati a disposizione, gli algoritmi utilizzati non sono riusciti a ricostruire l’organizzazione del chip o il ruolo dei singoli transistor. L’attuale conoscenza del cervello, dunque, potrebbe risentire degli stessi limiti. E in mancanza di un termine di confronto oggettivo come un cervello artificiale potremmo non accorgercene mai. «In fondo» concludono Jonas e Korling «il problema non è che i neuroscienziati non siano in grado di studiare un microprocessore, ma che l’approccio utilizzato impedisca loro di farlo».
Non sono i soli a dubitare dell’accuratezza delle neuroscienze. Anche un altro strumento essenziale per chi compie ricerche sul cervello, la risonanza magnetica funzionale che rileva l’attività delle regioni cerebrali, è stato al centro di un caso che ha scosso la comunità scientifica.
ALLA RISONANZA magnetica dobbiamo una gran parte delle nostre conoscenze sul cervello: la solita Pubmed riporta circa quattromila studi basati sulla risonanza magnetica nel solo 2016, un numero decuplicato in un quindicennio. Eppure, secondo Anders Eklund, Thomas Nichols e Hans Knutsson dell’università di Linköping (Svezia) e Warwick (Regno Unito) molte di queste ricerche potrebbero riportare dati falsati. Una loro ricerca pubblicata sui Proceedings of the National Academy of Sciences nell’agosto del 2016 ha dimostrato che i software di analisi dei dati sul nostro cranio contengono gravi errori statistici. Risultato: circa quattromila studi scientifici pubblicati in questi anni sarebbero sbagliati.
Già nel 2012, il premio Ig Nobel per la ricerca più ridicola era stato assegnato a uno studio che rilevava attività cerebrale con la risonanza magnetica anche in un salmone morto. La ricerca evidenziava proprio che un uso ingenuo della statistica può dar vita a risultati «falsi positivi». Eklund e colleghi hanno dimostrato che non si tratta di un rischio meramente ipotetico.
Eppure, gli investimenti pubblici nelle neuroscienze abbondano su entrambe le sponde dell’Atlantico. Alla Brain Initiative lanciata da Obama, l’Europa ha risposto nel 2013 con il Brain Human Project, un programma di ricerca sul cervello su dieci anni con un budget di un miliardo di euro. Sono cifre e tempi finora riservati solo alle missioni spaziali e ai laboratori della fisica delle alte energie, come il Cern o gli osservatori di onde gravitazionali.
NONOSTANTE I SOLDI a palate, le cose però non filano come previsto. Lo Human Brain Project ha scatenato una guerra interna contro il direttore Henry Markram del Politecnico di Losanna. Secondo i critici, Markram intendeva usare l’intero budget per realizzare una sofisticata simulazione al computer del cervello, benché le conoscenze su come funzioni davvero il cervello siano ancora superficiali.
Come ha recentemente raccontato Nicola Nosengo sulla rivista online «Il Tascabile», «la comunicazione del progetto ha abbandonato del tutto l’immagine della simulazione completa del cervello e l’ha sostituita con una molto più pragmatica: costruire un Cern delle neuroscienze» mentre Markram «è quasi sparito dalla scena pubblica». Secondo Alessandro Treves della Scuola Superiore di Studi Avanzati di Trieste, c’era un equivoco di fondo: «Che facendo una ricostruzione al computer dal basso, senza una teoria, si potesse capire qualcosa del cervello. Epistemologicamente non stava in piedi», ha detto a Nosengo. L’abbondanza di soldi, dati e macchine dunque non basta. È ora che i neuroscienziati tirino fuori le idee.
La graphic novel di «Cervellopoli»
Spiegare ai ragazzi cosa avviene nel cervello: questo è l’obiettivo di «Benvenuti a Cervellopoli», una storia a fumetti appena pubblicata da Matteo Farinella per Editoriale Scienza. Il protagonista del libro è Ramon, un giovane neurone in cerca di lavoro. Attraversando la corteccia, il cervelletto, l’ippocampo e le altre regioni del nostro cervello, Ramon scopre quali funzioni svolgono i diversi tipi di neuroni che ci governano, e cosa succede al nostro sistema nervoso quando uno scorpione ci punge e sensi e movimenti si attivano all’improvviso.
L’accuratezza dei contenuti è garantita: Farinella, infatti, oltre che illustratore è un ricercatore. Nato a Bologna nel 1984, ha conseguito un dottorato in neuroscienze all’University College di Londra e attualmente lavora alla Columbia University di New York, dove svolge ricerche sull’impatto della narrativa visuale nella comunicazione scientifica. Nel 2014, Farinella ha pubblicato la graphic novel «Neurocomic», che nella versione italiana è edito da Rizzoli Lizard. “Benvenuti a Cervellopoli” è consigliato a lettori e lettrici dagli otto anni in su.
Anche il Biotech
contro Trump
Dopo le 97 imprese high-tech, altra levata di scudi contro il muslimban del presidente statunitense Donald Trump. Questa volta a scendere in campo, con una lettera inviata alla rivista «Nature Biotechnology», sono 160 imprese operanti nel settore delle biotecnologie e della chimica. Primo firmatario è stato Jeremy Levin, ex amministratore delegato di Teva ossia il piu’ grande produttore di farmaci generici al mondo. Per i firmatari, la limitazione degli ingressi negli Stati uniti potrebbe colpire la leadership statunitense in questo settori, ritenuti strategici per qualsiasi politica tesa ad uscrire dalla crisi economica. Nella lettera viene fatto riferimento al fatto che nel 2014 il 52% dei 69.000 ricercatori biomedici in Usa erano nati all’estero. Un valore aggiunto che ha portato ricchezza e profitti negli usa.
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