Una scena del film

Il progetto di lavorare insieme con quei ragazzi che erano stati suoi allievi al Centro sperimentale di Palermo c’era da un po’ di tempo, poi è arrivato il Covid e tutto sembrava diventato impossibile. Dice Stefano Savona: «Ci sentivamo a distanza, vedevamo quanto accadeva in Italia e ci chiedevamo se si poteva fare qualcosa; ma io sono abituato a partire da solo, al limite se le cose non funzionano ho fatto un viaggio e torno indietro. Stavolta eravamo in otto, muoversi così senza assicurazioni era troppo rischioso». Finché non è arrivata la proposta del produttore, Andrea Iervolino di girare un film sul Covid. «Ma che voleva dire un film sul Covid? In quel momento abbiamo visto le immagini delle bare a Bergamo e abbiamo deciso di andarci». È da qui che inizia Le mura di Bergamo, il nuovo film del regista palermitano (La strada dei Samouni; Tahrir) coi suoi lavori tra i più lucidi narratori delle realtà del nostro tempo – sarà in sala il 23 marzo. Realizzato insieme a Danny Biancardi, Sebastiano Caceffo, Alessandro Drudi, Silvia Miola, Virginia Nardelli, Benedetta Valebrega, Marta Violante è, appunto, un film sul Covid e non sul lockdown – anzi ne è quasi un controcampo. Non ci sono canzoni dai balconi né lo stupore delle strade deserte. Ci sono invece i corpi malati dei pazienti e il corpo malato di una città divenuta simbolica, Bergamo, e i cuori spaventati di chi è travolto e prova a resistere, in un modo e in un altro. E dopo, quando quanto è accaduto ha i contorni sfumati di un passato sospeso, ci sono le parole di chi cerca un discorso comune, una narrazione che non metta da parte quel vissuto, che non lo rimuova nell’ansia di cancellarlo. È un film molto emozionante Le mura di Bergamo, senza retorica ma per come si mette in gioco nel confronto con la vita e con la morte, per come guarda e assume i suoi rischi entrando da vicino nell’intimità fragile di ciascuno. Ne parliamo con Savona, da Parigi, dove vive.

Una volta presa la decisione di partire come vi siete organizzati? In quel momento mancava tutto, a cominciare dai mezzi di protezione.

Ci sentivamo un po’ come l’Armata Brancaleone, l’alcol era introvabile e le mascherine le avevamo fabbricate da soli, A Bergamo abbiamo contattato chi conoscevamo, provando a entrare nella città che era paralizzata dalla paura. Ognuno di noi cercava un possibile interlocutore, un po’ come avevamo fatto quando eravamo al Centro, lavorando per creare una situazione su cui concentrarsi. Non era possibile avere contatti estesi, non si poteva entrare in due nella stessa stanza. All’inizio abbiamo fatto qualche incontro su zoom ma il punto era come filmarli? Se volevamo riprendere da lì dovevamo filmare le persone a distanza. Virginia (Nardelli, ndr), per fare un esempio ha lavorato con l’anestesista: i loro incontri, visto che all’inizio non avevamo accesso all’ospedale, e le persone non ci lasciavano entrare nelle loro case, avvenivano nel tragitto che lei faceva dall’ospedale a casa e viceversa. È stato così che ha raccontato la storia del messaggio che un paziente le aveva chiesto di scrivere alla moglie. Era un gesto con un significato molto importante perché l’ anestetista non dovrebbe mai superare un certa soglia emotiva coi pazienti, in terapia intensiva metà di loro non ce la farà, e se crei una vicinanza il carico emozionale diventa troppo pesante. In generale abbiamo aspettato, volevamo costruire una relazione , doveva esserci fiducia, siamo entrati a poco a poco, volevamo prima conoscere le persone e che loro capissero il nostro lavoro. Anche le riprese in ospedale: la prima volta sono entrato al Sacco di Milano, ma non c’era alcuna distanza tra me e i malati, non ho nemmeno tirato fuori la telecamera, come fai a filmare? Poi ho trovato l’ospedale degli Alpini, che permetteva la distanza necessaria coi pazienti.

Il disegno dei film ha preso forma durante le riprese? Immagino che all’inizio, un po’ come tutte e tutti noi non c’era un’idea chiara di come confrontarsi con quello che stava succedendo.

Abbiamo girato in diversi mesi tornando più volte a Bergamo tra il 2020 e il 2021, e poi col montaggio che è stato lungo, si continuavano nel tempo a aprire altre prospettive. Ci sono aspetti che non abbiamo affrontato in maniera specifica perché ci sarebbe voluto un film di investigazione che non era il nostro obiettivo. Mi riferisco agli anziani e alle case di riposo dove il tasso dei decessi è stato del 90%; la responsabilità di gestione delle Rsa è una delle pagine più buie del Covid, li hanno chiusi dentro per farli morire. La nostra scommessa però è quella di illuminare altri aspetti che non sono immediatamente riconducibili alle questioni politiche o amministrative, per superare la contemporaneità dei fatti in una direzione cinematografica che non è quella dell’inchiesta.

Cioè? Cosa cercavate?

Nei due anni di montaggio mi sono reso conto che tutti eravamo parte di questa storia, la paura del Covid, la realtà della pandemia ci poneva domande inconsce diverse. Il momento in cui questo si poteva raccontare è stato solo quando abbiamo detto che era finita. Prima ogni immagine aveva un senso differente. Quando si sono scatenate le polemiche negazioniste, con quelli che dicevano che il covid non esisteva, poi i no-vax, noi potevamo mostrare le immagini e dire, «Guardate, è tutto vero, ecco le prove è successo». A quel punto le immagini diventavano documenti, prove, mentre poi c’era il timore dell’effetto «già visto». Ora invece che vedere qualcuno con la mascherina fa un effetto strano, queste immagini non sono più così scontate. E forse per questo a un certo punto erano le persone stesse che chiedevano di filmare «a futura memoria», un concetto fondamentale per un riflessione su tutto questo.

Vorrei tornare su questa idea delle immagini che assumono un differente significato quando una cosa è passata.

Se nella percezione collettiva un’esperienza viene percepita come superata, allora è possibile contestualizzarla nella storia di una comunità, e dare a quei fatti una narrazione storica e cinematografica. Un racconto in tempo reale è un reportage, che va benissimo, l’ho fatto per Piombo fuso (su quanto accadde nell’attacco di Israele alla Striscia di Gaza nel 2009, con l’operazione da cui il film prende il titolo, ndr). Però il cinema può fare qualcosa che rimane. Se rivedo oggi, dopo dieci anni Tahrir (2011) so che l’Egitto è in una situazione orrenda, ma quel momento lì i sogni e le rivendicazioni di una rivoluzione – che portò alla caduta del regime di Mubarak – sono in quelle voci e in quelle immagini che la restituiscono storicamente con una durata nella distanza temporale. Se invece si risponde soltanto alle domande contestuali il rischio è anche fare un prodotto usa & getta.

La redazione consiglia:
Un archeologo dentro le immaginiL’indagine in «Le mura di Bergamo» mette dunque al centro i vissuti e i sentimenti personali.

È un discorso politico in un certo senso più rischioso, e anche più complicato. Se ci pensi concentrarsi su una responsabilità esterna mette da parte quelle paure che il Covid ha smosso, io stesso mi sono confrontato con la fragilità, l’angoscia, l’età. Le persone che nel film alla fine si incontrano e provano a dare un nome a questa loro esperienza si fanno anche carico di quelle degli altri, e a fronte della volontà di ricominciare senza guardare indietro cercano di costruire un discorso comune. Che è difficile perché parlare del Covid è quasi un tabù, nessuno ne ha voglia.

Ci sono figure che tornano più di altre.

Volevo avere un protagonista collettivo, ovvero la città, che forse è impossibile, però anche i personaggi che ritornano più spesso, come quello di Roberta, la giovane donna che lavora per le pompe funebri, garantiscono una dimensione corale, una polifonia che è data dagli assoli. Alla fine ci sono almeno 100 persone che appaiono; quando abbiamo fatto la proiezione per chi ha partecipato perché volevamo assicurarci che nessuno fosse offeso dal nostro film, abbiamo riempito una grande sala.

Da cosa nasce la scelta di usare gli archivi?

Nello specifico questi arrivano dai suggerimenti di Sara Fgaier con cui collaboravo. È stata lei a farmi scoprire l’Archivio Cinescatti, che ha film amatoriali e di famiglia con materiali bellissimi che risalgono agli anni ’30. L’archivio qui diviene la memoria inconscia di questo corpo malato, quello della città di Bergamo e quelli dei singoli pazienti nelle terapie intensive a cui il dormiveglia dà una percezione alterata di quanto c’è intorno, tanto che dopo la terapia intensiva si parla riabilitazioni post traumatiche. Quei corpi sono delle prigioni dalle quali la malattia non permette di uscire, e come le mura di Bergamo negano ogni comunicazione con l’esterno. Con la guarigione il malato si scioglie nella città, il suo vissuto diviene memoria cosciente a cui l’archivio fa da contro campo. Anche in La strada dei Samouni ho utilizzato questo procedimento, in quel caso le narrazioni orali si traducevano nell’animazione che permetteva di ricreare in immagini la memoria.