Giuseppe Conte è diplomatico troppo fine per cantare vittoria dopo una competizione elettorale che va a suo vantaggio ma alla quale non partecipava: «Non mi sentivo in bilico ieri e non mi sento inamovibile oggi». Modesto e un po’ sornione. Il risultato però porta all’ordine del giorno nodi che sta a lui sciogliere e il primo riguarda proprio la sua squadra. Il rimpasto insomma. Per ora non se ne parla: «Sono soddisfatto della squadra che è coesa. Non avverto l’esigenza di un rimpasto».

CAPITOLO CHIUSO? Tutt’altro. Solo che un ritocco della squadra limitato a qualche cambio di poltrona sarebbe oggi più rischioso che altro. Neppure il vicesegretario del Pd Andrea Orlando, che si era espresso a favore di un «rinnovo del tagliando», batte più sul tasto. Se rimpasto ha da essere, deve trattarsi di un cambiamento radicale, tale mettere in campo una formazione basata su equilibri diversi, capace di arrivare senza scossoni a fine legislatura e di trovare da subito, almeno sul metodo se non sul nome, un’intesa sull’elezione del prossimo capo dello Stato. Impresa delicata dal momento che la vittoria del Sì offre argomenti solidi alla destra, secondo cui un presidente eletto da un parlamento già superato nella struttura sarebbe azzoppato in partenza.
Un rimpasto di tali dimensioni e ambizioni verte essenzialmente su un nome: quello di Nicola Zingaretti. Il suo ingresso, accompagnato da un ridefinizione complessiva dell’esecutivo, muterebbe per intero la fisionomia del governo e l’ipotesi è del tutto realistica. Il segretario del Pd, uscito vincente dalla prova che avrebbe potuto metterlo al tappeto, non ha ancora deciso. Le controindicazioni non mancano: Dario Franceschini non sarebbe più capodelegazione dem e gli equilibri del partito ne risentirebbero, la presidenza della regione Lazio resterebbe vacante e sarebbe dunque necessario un accordo preventivo con i 5 Stelle per le elezioni regionali. Insomma, se ne parlerà, se del caso, solo a gennaio, dopo il varo della legge di bilancio.

IL RINVIO È IMPOSTO anche dalla seconda suggestione che alberga al Nazareno: quella di candidare a Roma il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, sgombrando così anche la casella più importante del governo dopo palazzo Chigi. È una manovra che non si può neppure immaginare prima del varo della legge di bilancio e gli ostacoli sono impervi. Gualtieri è una figura chiave nei rapporti con la Ue, non proprio quanto Gentiloni e Sassoli ma quasi. Sostituirlo con qualcuno in grado di coprire lo stesso ruolo non sarebbe facile.
Il secondo nodo si chiama Mes. Zingaretti, in mattinata, era stato ultimativo: «Speranza deve presentare un piano Sanità. Per costruire il miglior sistema sanitario del mondo si utilizzi il Mes». In apparenza il premier come d’abitudine rinvia: «È una questione pregiudiziale su cui non mi pronuncio. Prima bisogna elaborare un piano per la sanità, poi vedremo quanto costa». La formuletta, in realtà, potrebbe indicare una strategia precisa, forse l’unica in grado di mettere d’accordo Pd e 5 Stelle, altrettanto fermi ma su posizioni opposte. L’idea sarebbe quella di varare una legge di bilancio con le cospicue spese sanitarie non coperte dal Mes. I pentastellati chiederebbero di aggiungere i capitoli su cui puntano di più, dal rinnovo del reddito di cittadinanza al taglio dell’Irpef. Il solo modo per farlo, a quel punto, sarebbe “liberare” i fondi previsti per la sanità attingendo a una parte del prestito, una decina di miliardi per cominciare. La manovra permetterebbe al Movimento di cedere parzialmente sul prestito in cambio però di un intervento che verrebbe descritto come storico, epocale, ecc. Può funzionare.
Infine i decreti Sicurezza, altra priorità indicata da Zingaretti: «Ora vanno approvati i nuovi decreti». E il premier dice sì anche a una «riflessione» sullo Ius soli. Qui l’effetto della sconfitta di Salvini, sinora incubo onnipresente di Conte, permette qualche libertà di movimento in più: «Li portiamo al più presto in consiglio dei ministri. Abbiamo già concordato un testo di modifica».

PERCHÉ IL DISEGNO del premier si realizzi è necessario che i 5 stelle non esplodano e che usino la vittoria referendaria per calare un velo sulla batosta delle elezioni regionali invece di aprire la guerra interna. «Non credo che gli amici del Movimento 5 Stelle si aspettassero brillanti risultati e hanno motivo di consolarsi con il referendum», esorta Conte. Luigi Di Maio non chiede di meglio. Lui però più che di consolazione preferisce parlare di vittoria nettissima e personale, anche per chiudere i conti con Alessandro Di Battista. Ma stavolta l’esplosione più volte rinviata nel formicaio 5S sembra inevitabile e gli esiti incideranno a fondo sulla sorte e sul percorso del governo.