«Ripensare» l’immagine, in particolare quella cinematografica, nel corso del ventesimo secolo: la sua storia, il suo ruolo. Intorno a questa riflessione si è articolato l’incontro informale tenutosi a Locarno fra il filosofo tedesco Peter Sloterdijk e il filmmaker rumeno Andrei Ujica, indagatore del rapporto tra immagine e percezione in film cardine come Videograms of a Revolution. Un discorso nato nella sala da pranzo di Sloterdijk a Karlsruhe, e che Ujica ha pensato potesse rivelarsi interessante anche per il pubblico.

Entrambi partono da Bazin, dalle radici, dall’arte come tentativo di fermare il tempo (il «complesso della mummia») e l’universo parallelo che essa crea dal momento in cui i Lumière pensarono di registrare i frammenti del tempo per poterli rivedere infinite volte. È qui, secondo Ujica, che nasce il linguaggio del cinema. Per Sloterdijk è ciò che lega l’idea della mummia all’universo, perché l’ontologia insita nell’immagine è qualcosa capace di creare, essere e natura. Ecco il ritorno a Platone, al processo cognitivo come al meccanismo emozionale che vede in noi un’immagine primitiva con la quale ci rapportiamo alla realtà appena venuti alla luce. Su questa convinzione tutto il platonismo pensa a un mondo possibile senza il movimento, perché esso è corruzione della tranquillità (l’uomo saggio di Socrate, colui che cerca di esser immobile nella vita terrena, come una mummia).

Cosa, dunque, ha portato al cinema? «La mummificazione universale dell’essere», secondo entrambi. L’immagine in movimento non appartiene a un tempo perché li abita tutti, si muove continuamente nel suo esser provvisoriamente fissa. Quando dimentichiamo cerchiamo di rivivere attraverso il movimento, e il cinema esiste perché «ama» il movimento e vive nel suo stesso vitalismo. È dunque il linguaggio stesso a produrre immagini, perché il cinema non è un’arte nuova: la sua radice è nel romanzo. Anche per questo un film tratto da un libro che amiamo spesso ci delude, perché leggendo ci siamo già costruiti il nostro film mentale, e quasi mai esso collima con quello dell’autore.

La storia del cinema elabora quella della letteratura, anche nella finzione la macchina da presa cattura il tempo documentandolo, restituendoci i suoi frammenti (Godard e la sua visione della finzione come atto per essenza documentale, con attori). Il discorso tra Sloterdijk e Ujica guarda poi a quegli autori che hanno riscritto la storia del cinema attraverso la letteratura (su tutti De Oliveira e il suo Le Soulier de satin), evidenziando la possibilità che l’immagine in movimento trovi il suo senso nel modellare il tempo prima che lo spazio, così come fa la musica. Infine, da dove arriva e dove andrà questa immagine? Per il tedesco l’entropia della morte è il non movimento: la Settima Arte ci insegna come vedere le cose dopo la morte, e il mondo si crea e vive attraverso la copia.
Nella prima parte del ’900 il cinema era legato alla propaganda. Il punto di rottura, per Ujica, è stata la scelta di John Ford, che filmò lo sbarco alleato in Normandia senza poi più metterci mano, nell’impossibilità etica di montare il materiale filmato. Ecco l’importanza dell’archivio, la vividezza del materiale, perché anche una sola fotografia d’epoca è ironia e cronaca del nostro passato, come se uno stesso spazio potesse contenere tutti i dipinti del mondo.

Oggi, per Sloterdijk, il tempo reale penetra maggiormente la riproduzione attraverso la soggettività, e l’obiettività è entrata in crisi: siamo schiavi di un nuovo regime (quello delle fake news, ad esempio) in cui l’immagine mente in maniera ancora più radicale. Nella società contemporanea non c’è più voglia di guardare l’evoluzione del mondo attraverso il cinema, perché al cinema oramai gli uomini parlano unicamente della propria vita soggettiva. Oggi le immagini sono sincretiche e digitali, non più fabbricate dall’uomo, così anche la narrazione cerca nuove strade.

«Dobbiamo capire come vedere le cose in un modo diverso», conclude caustico Sloterdijk. Un incontro densissimo, che ci invita a pensare sempre a ciò che stiamo guardando e a mettere in discussione continuamente il nostro ruolo di spettatori. Anche solo per rispetto di ciò che è stata l’immagine nelventesimo secolo.