«Adesso vedremo il testo e capiremo se quella di Renzi è una proposta vera. Se il voto degli elettori sarà vincolante, come lo era per la legge Tatarella, per noi va bene». Alfredo D’Attorre, che è ufficialmente il nuovo bersaglio preferito di Renzi ora che Stefano Fassina se n’è andato, alla fine della direzione è più che possibilista. La minoranza dem, che pure nel corso del dibattito ha dato espliciti segnali positivi, non partecipa al voto sulla relazione del segretario. I numeri sarebbero stati tristi e solitari, meglio non contarsi. E così finisce con un antiestetico «sì» all’unanimità: zero contrari, zero astenuti. Ma la versione ufficiale è un’altra. «Non abbiamo partecipato al voto perché la riforma costituzionale non è cosa del parlamento», dice D’Attorre. E del resto il voto della direzione non è formalmente vincolante per i gruppi parlamentari: sui temi costituzionali i regolamenti dem lasciano libertà di coscienza. Renzi indubbiamente porta a casa un successo, ma D’Attorre non si sente sconfitto: «La verità è che la maggioranza al senato è molto meno sicura dei numeri di quello che dice. E per come Renzi ha caricato il passaggio politico, se la riforma fosse approvata con i voti determinanti di Verdini sarebbe costretto a salire al Colle». Con le imprevedibili conseguenze del caso.

Ma anche la minoranza tira un sospiro di sollievo. Dubbi e scontenti non mancano. Nico Stumpo lascia la direzione dopo il discorso di Renzi. Felice Casson neanche ci va, va invece alla Zanzara di Radio24 e spiega: «È inutile, se si vuole fare un confronto serio si poteva fare da due mesi, si dice sempre ma non si fa mai». Miguel Gotor avverte: «La Costituzione esige chiarezza: non c’è bisogno di bizantinismi e giri di parole». Ma da questa parte nessuno punta alla rottura insanabile. Renzi lo sa e per questo prima di arrivare alla proposta di armistizio si toglie il gusto di sfottere la compagnia: «Le scissioni funzionano molto come minaccia, un po’ meno nel passaggio elettorale. Chi di scissioni ferisce, di scissioni perisce», dice. Ce l’ha con l’ex ministro greco Varoufakis, il grande sconfitto del voto greco, ma l’allusione è ai (presunti) scissionisti di casa sua è più che esibita.

Alla fine Renzi propone quello che da qualche giorno circola con il nome di «lodo Chiti». I senatori verranno «designati» dai cittadini nel voto regionale e ratificati dai consigli. Il modello è quello dell’elezione dei governatori negli anni 90, prima che ne fosse sancita l’elezione diretta. Così furono votati Vannino Chiti e Pierluigi Bersani, lascia cadere nel discorso con finta noncuranza. E con precedenti così chi può parlare di «attacco alla democrazia»?

Infatti da Modena, dove conclude la festa dell’Unità, Bersani parla di «apertura significativa: se si intende che gli elettori scelgono i senatori e i consigli regionali ratificano va bene, perché è la sostanza di quello che abbiamo sempre chiesto». In realtà sabato l’ex segretario aveva parlato di irrinunciabile «senato elettivo», scatenando le reazioni della segreteria («No ai dicktat»). E la verità è che il senato non sarà elettivo. Ma è scoppiata la pax renziana, e l’idea di rischiare un cambio di maggioranza fa diventare tutti più buoni. Lorenzo Guerini certifica: quella di Bersani «è un’apertura positiva. Non possiamo che esserne contenti». Matteo Orfini, che sabato aveva attaccato i compagni «falchi» stavolta parla di «spirito comunitario».

Al terzo piano del Nazareno il filo il primo a annunciare il sì della minoranza è Gianni Cuperlo, che del resto aveva già dato il suo via libera sabato: «Non è in corso un braccio di ferro o una prova muscolare e non ci devono essere diktat», dice, e sembra avercela più con l’ex segretario che con l’attuale, «bisogna trovare uno sbocco da rivendicare come successo comune» in cui «ciascuno rinuncia a qualcosa» e non cede alla tentazione di «esibire uno scalpo». Conclusione: il lodo Chiti «può rappresentare il punto condiviso, che riconosca l’utilità di un criterio più diretto di selezione da parte degli elettori, con una rappresentanza legittimata da un voto popolare, mantenendo ai consigli regionali il compito di una formale ratifica. Su questa base possiamo mandare all’esterno un messaggio di unità».