Dopo Marino, tocca a Crocetta. Renzi non molla la presa. E l’impugnativa della legge sull’acqua pubblica, che ha recepito la volontà popolare espressa col referendum, appare come il proseguimento di una strategia, che a molti anche nel Pd siciliano appare ormai chiara: screditare la Sicilia e il governo Crocetta. Ci ha impiegato solo sette minuti il Cdm a cassare la legge approvata dall’Assemblea siciliana lo scorso agosto.

Una impugnativa del resto annunciata da giorni dal sottosegretario Davide Faraone, proconsole di Renzi in Sicilia, che da mesi prova a fare fuori politicamente il governatore. Prima cavalcando le dimissioni di Lucia Borsellino da assessore alla Sanità, poi spingendo sull’acceleratore quando gli attacchi a Crocetta per via dell’intercettazione col medico Matteo Tutino, smentita da quattro Procure antimafia, hanno fatto traballare il governatore che, accerchiato dai falchi del Pd e tramortito dalla superficialità dei commenti a caldo delle più alte cariche dello Stato, ha davvero pensato alle dimissioni. Per poi tornare più agguerrito di prima.

Fallito il doppio sgambetto, la strategia non è cambiata. Questa volta facendo leva sul potere d’impugnativa delle leggi, che la Consulta, all’epoca guidata dal siciliano Gaetano Silvestri nel giro di poche settimane, ha tolto all’ufficio del commissario dello Stato dopo sessant’anni, trasferendo le funzioni al Cdm, organo chiaramente politico. Nel giro di pochi mesi, la Presidenza del Consiglio ne ha cassate ben tre di leggi siciliane, l’ultima ieri. Quella sull’acqua pubblica appunto. Una legge che ha rimesso in mani pubbliche un settore che ha consentito ai privati, comprese alcune multinazionali, di fare business per anni creando carrozzoni mangiasoldi e clientele di ogni tipo in una regione, la Sicilia, dove l’acqua in alcune zone di Agrigento, Trapani e Messina viene ancora erogata a singhiozzo. Una legge sostenuta da alcuni deputati-sindaci, come Giovanni Panepinto (Pd), in raccordo col Forum per l’acqua pubblica, che è stata persino modificata in extremis prima del voto finale proprio sotto la pressione dei ‘renziani’, che con il loro assessore all’Energia Vania Contraffatto, sono riusciti a far passere emendamenti a favore dei privati.

«Se non si modifica così, la legge verrà impugnata», era stata la minaccia dell’assessore ‘renziano’. Ma evidentemente non è bastato. L’impugnativa è arrivata puntale. «L’impugnativa ci appare assolutamente inopportuna», accusano i deputati siciliani del Pd alla Camera Antonino Moscatt, Franco Ribaudo e Magda Culotta. Perché la legge «è frutto di un lavoro lungo e attento che ha coinvolto amministratori locali, associazioni, movimenti e partiti politici» e «la difenderemo restando in prima linea a fianco del Pd siciliano e del governo». E Crocetta aggiunge: «Valuteremo gli atti da compiere per superare il problema».

Da giorni i giornali erano inondati di indiscrezioni sulla probabile impugnativa della legge. Un refrain. E’ accaduto anche per altre due leggi impugnate in precedenza, quella sugli appalti e quella sull’abolizione delle ex Province regionali, puntualmente preannunciate alla stampa dal sottosegretario Faraone. Si tratta di tre leggi sulle quali in realtà proprio il governatore Crocetta ha poca o addirittura nessuna responsabilità. La riforma degli appalti porta la firma soprattutto del Movimento 5stelle e della lobby dell’Ance, i costruttori siciliani; quella sulle Province, invece, è frutto di un ampio compromesso e la sua paternità va ricercata tra i corridoi bipartisan dell’Assemblea.

Nei giorni scorsi, il commissario dello Stato, ormai spettatore, dichiarò senza mezzi termini che sulle Province c’è in atto un falso dibattito. Lo Statuto siciliano, antecedente alla Costituzione, infatti stabilisce che in Sicilia ci sono i Liberi consorzi, che poi il legislatore siciliano, denominò «Province regionali», che nulla hanno a che fare, giuridicamente, con le Province abolite dalla legge Delrio. La competenza di definire gli ambiti territoriali e le funzioni spetta dunque al legislatore siciliano e non allo Stato. Eppure la Presidenza del Consiglio è intervenuta a gamba tesa.

Un doppio binario, politico e istituzionale, che per Crocetta è una spada di damocle, pronta a tranciare la legislatura in anticipo rispetto alla scadenza naturale del 2017. In Assemblea, il proconsole Faraone conta sulle new entry nel Pd, in particolare l’ex cuffariana Valeria Sudano e l’ex Udc Luca Sammartino, giovani deputati con alla spalle un bel pacchetto di voti. L’allargamento a destra dei «renziani» è emerso alla luce del sole durante la cosiddetta «Leopolda siciliana», quando Faraone a Palermo aprì le danze allo scontro con il governatore, accusandolo, tra le tante cose, di fare un antimafia di facciata. Dalla sua parte, Faraone ha tirato anche l’ex ministro Totò Cardinale, ispiratore della neonata «Sicilia Futura», preferendo l’accordo col nuovo ed eterogeneo movimento piuttosto che appoggiare l’alleanza, in linea con quanto avviene a Roma con l’asse Renzi-Alfano, tra Udc (in maggioranza) e il Ncd (all’opposizione di Crocetta), sostenuta invece dal giovane turco Fausto Raciti, segretario del Pd siciliano, che lavora per tenere la coalizione e creare un asse fino alle prossime regionali. Un’operazione non facile, considerando i rapporti tesi tra Palermo e Roma. A confermarli anche Alessandro Baccei, l’assessore «tecnico» imposto a Crocetta dal ministro Delrio per guidare l’Economia, e vicino a Faraone. «Roma maltratta la Sicilia», ha chiosato Baccei. Fornendo anche qualche numero. Solo di crediti nei confronti di Stato e Ue, la Sicilia avanza ben 10 miliardi di euro iscritti a bilancio come «residui attivi»: soldi che potrebbero fare cassa risolvendo i problemi di liquidità della Regione.

Di contro la Sicilia è costretta a contribuire alla finanza pubblica con un miliardo e 400 milioni all’anno, seconda solo alla Lombardia. Non solo. Lo Stato deve all’isola ben 700 milioni alla voce sanità, mentre l’innalzamento della quota di compartecipazione della Regione al fondo sanitario ha comportato un maggiore onere per le casse regionali di 600 milioni all’anno. E poi c’è la questione dello statuto speciale. Se applicato, la Regione potrebbe incassare qualcosa come 9 miliardi di euro, mettendo a posto i conti e potendo vivere senza trasferimenti statali. Ma la Consulta, di recente, ha sentenziato che lo Stato non deve nulla alla Sicilia, ammettendo però che l’isola è stata penalizzata, consigliando alla Regione di negoziare con Roma. In ballo ci sono solo per il 2016 un miliardo e mezzo di euro, il resto dovrebbe essere discusso in sede di riforma dello statuto.

L’intesa tecnica per i fondi del 2016 tra Palermo e Roma c’è già, manca quella politica. Senza la copertura del disavanzo, la Sicilia diventerà una polveriera sociale.