È uno dei monumenti più visitati al mondo e il simbolo per antonomasia della città di Roma. L’Anfiteatro Flavio – meglio conosciuto come Colosseo, forse in ricordo della gigantesca statua di Nerone che si ergeva nell’area – evoca nell’immaginario collettivo le cacce e l’uccisione di animali esotici (venationes) e soprattutto i cruenti giochi gladiatori (munera) che dall’80 d.C. mandavano in visibilio le folle. Ora, il volume Anfiteatro Flavio, trasformazioni e riusi (Electa, pp. 328, euro 50), a cura di Giulia Facchin, Rossella Rea e Riccardo Santangeli Valenzani, racconta le vite postume del Colosseo a partire dagli scavi archeologici condotti tra il 2011 e il 2015 dall’Università di Roma Tre.

IL SAGGIO PROPOSTO da Facchin inquadra i risultati delle indagini che hanno interessato tre degli ottanta cunei – lunghi ambienti con funzione di corridoio, sottoscala o scala di accesso agli ordini superiori – di cui l’anfiteatro era composto all’interno di cinque grandi fasi: la prima concerne la costruzione dell’edificio e il suo utilizzo quale luogo di spettacolo; la seconda si colloca nell’alto Medioevo, quando il monumento inizia a essere depredato dei suoi elementi decorativi; la terza riguarda il lungo periodo compreso tra X e XIII secolo, che vede l’anfiteatro popolarsi di proprietari e affittuari; nella quarta fase, che va dal XIV al XVIII secolo, si verificano le ultime spoliazioni e i successivi interri; infine, all’Ottocento corrispondono gli interventi di restauro atti a rendere accessibile l’imponente costruzione.
Dai condotti idraulici, scoperchiati nel basso Medioevo in seguito all’asportazione dei blocchi pavimentali del I ordine dell’edificio, sono riaffiorati resti di pasto – pollo e maiale, più raramente pesci e molluschi – che confermano la pratica di cucinare sugli spalti. Oltre al paniere, lo spettatore portava con sé dadi e pedine da gioco.

L’ULTIMO SPETTACOLO di cui si ha notizia si svolse nel 523: da allora il Colosseo perse la funzione per la quale era stato pensato da Vespasiano. Se le tracce della fase altomedievale sono esigue, dalla prima metà dell’XI secolo è invece attestata l’occupazione dei cunei dell’anfiteatro con cryptae. Di tali strutture si possono finalmente «visualizzare» forma e utilizzo: lo scavo intrapreso nelle crypte dei cunei IX e X ha infatti messo in luce un bancone in muratura addossato a una delle pareti.

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LA SUPERFICIE CONCAVA in cocciopesto ancora riconoscibile nella faccia superiore del bancone inerente al cuneo X, fa supporre si trattasse di una mangiatoia. Inoltre, gli incassi dei travi portanti sui muri antichi provano, come descritto in un documento del 1061, la ripartizione delle crypte in soppalchi lignei e solai. Non tutti gli ambienti, tuttavia, dovevano essere usati come stalle. I rifiuti recuperati negli strati di XII e XIII secolo sembrano richiamare la presenza di botteghe per la macellazione.
Nel contributo al volume firmato da Riccardo Santangeli Valenzani, si trova una breve rassegna delle fonti custodite nell’archivio della chiesa di Santa Maria Nova, che forniscono uno spaccato della frequentazione del Colosseo tra XI e XIII secolo. In quel periodo la proprietà giuridica del monumento apparteneva a grandi enti ecclesiastici, che cedevano in affitto alcuni settori a personaggi di diversa estrazione sociale. Le crypte non erano però le uniche tipologie edilizie ad annidarsi tra le rovine dell’anfiteatro.

OLTRE ALLA DOMUS di Petrus Romani de Frasia, è nota la fortezza dei Frangipane, di cui Alessandro Delfino avanza un’ipotesi ricostruttiva basata sia sui disegni tardo-rinascimentali – come le vedute dell’anonimo di Fabriczy e di Vincenzo Scamozzi – che sulle tracce rilevate in seguito ai restauri più recenti. Sull’intera lunghezza del muro in laterizio del III ordine del prospetto meridionale del Colosseo – dove era situata la fortezza – si intravvedono infatti una fila di buche pontaie pertinenti a un camminamento di ronda, evidenze che fanno supporre un intero sistema fortificato in grado di garantire protezione non solo all’altolocata famiglia dei Frangipane ma anche alle altre proprietà installate nel perimetro dell’anfiteatro.

Gli ultimi capitoli di questo libro ricco di nuovi dati, immergono il lettore nei cantieri di restauro ottocenteschi, momento in cui la necessità di mettere in sicurezza una costruzione maestosa ma pericolante superò i limiti modificando per sempre l’aspetto originario dell’anfiteatro ma anche l’architettura che lo scorrere del tempo e le azioni umane avevano plasmato. Una storia che in fondo si ripete ancor oggi, ogni qual volta alla conservazione del Colosseo vengono anteposti interessi politici ed economici estranei al valore culturale del patrimonio archeologico.

 

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LA MOSTRA: I SEVERI AL COLOSSEO

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Una galleria di busti accoglie il visitatore nel II ordine del Colosseo per la mostra Roma Universalis (sino a fine agosto), ideata da Clementina Panella – che la cura assieme a Rossella Rea e Alessandro D’Alessio – e promossa dal Parco Archeologico del Colosseo in collaborazione con Electa: sono i visi degli imperatori venuti dall’Africa e delle loro consorti e madri, la cui origine esotica (Giulia Domna era nata ad Emesa, in Siria) amplifica il cosmopolitismo della potente dinastia, regnante dal 193 al 235 d.C.

Alle capigliature ricciute di Settimio Severo e Caracalla (quest’ultimo inconfondibile per lo sguardo accigliato) fanno eco le composte ed elaborate chiome di Giulia Domna, moglie di Settimio Severo, e di sua nipote Giulia Mamea, la quale diede alla luce Alessandro Severo. Da segnalare il delicato ritratto di Geta bambino, in prestito dalla Staatliche Antikensammlungen und Glyptothek di Monaco di Baviera.

Attraverso un centinaio di oggetti, la rassegna si propone di narrare una fase dell’impero volgente al declino eppure ricca di conquiste e trasformazioni. A spiccare è soprattutto la figura di Settimio Severo, il fondatore della dinastia, che muovendo dal grandioso orizzonte di Leptis Magna costruì solidi confini e una struttura governativa d’impronta militare, tuttavia aperta alle arti. Particolare rilievo è dato alla constitutio Antoniniana, un proveddimento che appare ancor oggi rivoluzionario e tramite il quale nel 212 d.C. Caracalla concesse la cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’impero, rendendo il Mediterraneo uno spazio libero ed economicamente florido.

Tra i reperti più interessanti visibili nell’Anfiteatro Flavio vi sono tre elementi architettonici emersi in Piazza Bovio a Napoli durante i lavori per la costruzione della metropolitana e appartenenti a un arco onorario di età severiana. Uno dei pilastri che ornava la parte interna del monumento portava sul lato lungo una scena marittima in cui – fra le onde – si può scorgere un curioso animale, identificato con una foca monaca.

In un allestimento efficace ma piuttosto scolastico messo a punto dalla ditta Handle-Art di Roma, poche altre sono le rarità che illuminano l’esposizione sebbene le lastre in marmo lunense della Forma Urbis, mappa catastale della Roma del III secolo d.C. un tempo affissa nel Tempio della Pace, abbiano un impatto di rinnovata emozione. Da riscoprire, inoltre, gli straordinari plastici realizzati in occasione della Mostra Augustea della Romanità (1937-1938): il teatro di Sabratha e le terme di Leptis Magna, la cui conservazione è seriamente minacciata dalla situazione di caos politico vigente in Libia, rivivono in queste minuziose opere di gesso.

Dei recenti scavi condotti nella provincia romana della Tripolitania parleranno il 7 marzo, presso la Curia Iulia e nell’ambito dei giovedì del PArCo, Luisa Musso e Matthias Bruno. A Leptis Magna – colonia splendidissima – i medesimi studiosi hanno dedicato con Laura Buccino e Fulvia Bianchi anche un saggio nel corposo catalogo di Roma Universalis (Electa, pp. 344, euro 50). Dal Colosseo, l’esposizione si allarga al Foro Romano e al Palatino, dove sono stati rispettivamente riaperti l’antichissimo vicus ad Carinas e le Terme di Elagabalo. Il complesso termale voluto dal controverso e fascinoso imperatore che propagò il culto del Sol Invictus, ha restituito un gruppo di frammenti scultorei di raffinata fattura, per la prima volta presentati al pubblico nel Tempio di Romolo. (va. po.)