Dopo sei mesi di chiusura, Parigi ha riaperto infine i suoi caffè, le sue terrazze, i suoi musei. Ne approfittiamo per andare a visitare, al Centre Pompidou, l’Expo dedicata ad Abbas Kiarostami, poeta, artista, regista iraniano deceduto cinque anni fa. La mostra, Où est l’ami Kiarostami? (Dov’è l’amico Kiarostami?), il cui titolo allude al film che ha fatto conoscere il regista iraniano al pubblico europeo: Dov’è la casa del mio amico? (1987), fa parte di un più ampio omaggio voluto dal Pompidou, che comprende alcune pubblicazioni e una retrospettiva integrale dei suoi film – grazie alla quale si riscoprono i più noti, come Close up (1990) o Il gusto della ciliegia (Palma d’oro a Cannes nel 1997), e i meno conosciuti e in molti casi inediti in Europa, gli esordi e i corti degli anni Settanta e Ottanta restaurati in un lavoro cominciato dieci anni fa.

La mostra si apre con una serie riproduzioni fotografiche di circa due metri e mezzo di altezza che raffigurano dei portoni d’ingresso. Ognuno diverso, per colore, per materia, per disegno, ad un primo colpo d’occhio, si direbbe che appartengano ad un qualche borgo abbandonato. Alcuni sono iraniani, sono i primi che Kiarostami ha fotografato in un periodo di circa vent’anni. Gli altri, più recenti, sono portoni di città italiane. Tutti hanno in comune i segni di un lungo uso. Le tinte rosse o verdi o blu sono scrostate e lasciano intravedere strati sottostanti di colore o il nudo legno, arso dal sole o scavato dalla pioggia. Tutti sono chiusi e tutti sono imponenti. Quest’ultimo aspetto è essenziale. Kiarostami aveva già esposto la serie dei portoni a Toronto e ad Ankara. Ma aveva declinato l’invito di altri importanti luoghi d’arte che non avevano potuto garantire lo spazio sufficiente ad una riproduzione di grandi dimensioni – circa il doppio del soggetto reale. Chiaramente, i portoni rappresentano un limite invalicabile. Ma non è il tema leopardiano dell’immaginazione al di là dell’ostacolo. Non è dietro o oltre la porta ma sulla sua stessa superficie che la materia racconta mille e una storia.

ACCANTO ad ogni porta, c’è un’altra riproduzione fotografica, con uno o due versi estratti dai quaderni di Kiarostami, sui quali il cineasta, tra le varie note, fissava per iscritto ibrevi componimenti lirici. A chi non conosce il persiano, la scrittura può sembrare una calligrafica. Ma è solo apparenza.
La curatrice Massoumeh Lahidji, che ci fa l’immenso regalo di accompagnarci, ci dice che al contrario sono versi buttati giù di getto. La poesia è in effetti una porta d’ingresso nell’arte di Kiarostami. E non è una porta pomposa o altisonante, ma al contrario quotidiana, umile, spoglia. La poesia è un portone che si usa ogni giorno. Uno di questi poemi, sembra scritto durante un lockdown e rima ironicamente con questa esposizione che doveva aprire due anni fa, e che è stata più volte riprogrammata: «Che giorno è oggi ? Che mese? Che anno?». Un’altra poesia ci fa uscire da questo bosco di porte. È stampata in francese e persiano per terra, sul tracciato del gioco della campana, che qui in Francia chiamano « la marelle». Dice: «Dieci scalini, un cesto. Dieci scalini, un cesto. Nessuno mi ha aperto».

L’ABITARE, l’infanzia: da subito, l’Expo invita il pubblico a riflettere su questi due elementi chiave nell’universo kiarostamiano. E ne aggiunge subito un altro: il viaggio. Proseguendo si arriva a una Land rover. Non è appartenuta al regista, ma somiglia al tipo di veicolo che prediligeva. L’automobile, nel cinema di Kiarostami, è una vera macchina da ripresa. E se non è il primo ad averne scoperto le virtù, Kiarostami è noto per averne fatto un uso intenso e innovativo. Usandola come modo per inquadrare il paesaggio. Oppure per filmare una conversazione tra il conducente e il passeggero da fuori e da lontano (ma con l’audio come se fossimo dentro l’abitacolo). La macchina in Kiarostami è al tempo stesso mobile e immobile. È un luogo intimo ma anche aperto. È un oggetto scenografico, e insieme è e uno strumento – senza il quale il regista non avrebbe potuto preparare molti dei suoi film. Quella della mostra – posta davanti a uno schermo che proietta dei film di Kiarostami riassume tutti questi ruoli invertendoli: la macchina da ripresa diventa una mini sala cinematografica (con l’audio che esce dall’autoradio). Anche se, a causa del covid, non è possibile entrare in questo cinematografo su ruote.

GIRATO l’angolo, il percorso espositivo ricomincia da zero, con alcune opere grafiche del giovane Kiarostami, illustratore di manifesti per il cinema, e di alcuni titoli di testa dei film. Kiarostami ha studiato da pittore all’accademia delle Belle arti. Prima di diventare regista, si guadagnava da vivere come grafico. Una passione a cui è rimasto fedele tutta la vita, che si ritrova nella composizione delle linee e dei colori dei suoi film. E in seguito nella sua fotografia, attività che Kiarostami comincia quando, dopo la rivoluzione, diventa difficile girare film. La mostra propone un’antologia di questo lavoro fotografico che rappresenta strade, paesaggi, montagne – sempre accompagnate da alcuni versi. Curiosamente, è la sala in cui si pensa di più ai film di Kiarostami, sia per la ricerca estetica delle forme, che tendono sempre a comporre un’immagine piatta e astratta, sia per il tono poetico e in qualche modo spirituale del paesaggio e della strada, come metafora dell’esistenza umana e della ricerca artistica.

LA SALA successiva è una proposta del drammaturgo Amir Reza Koohestani, a partire dal film Caso n°1, caso n°2 (1979). Il film racconta in forma di finzione una sorta di esperienza filosofica. Un insegnante mette alla porta i propri alunni imponendo un ultimatum: o denunciano il responsabile di una bravata, oppure non potranno rientrare in classe. Gli alunni hanno dunque due possibilità: denunciare (caso 1) oppure resistere (caso 2). La stessa alternativa si è posta a molti protagonisti della rivoluzione islamica, che Kiarostami nel film invita ad esprimersi su questo dilemma. Koohestani scompone queste interviste e le posiziona una contro l’altra nello spazio della sala. La biografia dei personaggi confronta con impietosa neutralità il loro punto di vista nel 1979, all’indomani della rivoluzione, con la posizione che questi stessi poi hanno assunto negli anni successivi, e somiglia per certi versi al dizionarietto finale di Lenin a Zurigo di Solzenicyn. La parte finale della mostra è dedicata all’interesse di Kiarostami per la mise en abime. Si comincia con un’installazione ricavata dalle immagini del corto-metraggio Shirin (2008), nel quale Kiarostami filma il volto di alcune attrici, a cui chiede di immaginare di vedere un film in sala. E si finisce con una mostra di interessanti montaggi fotografici dal titolo Monet et moi.
L’insieme dell’Expo si visita in circa un’ora e mezzo. Il materiale proposto è contenuto rispetto all’incredibile ricchezza di opere che Kiarostami, tra fotografia, illustrazione e video-arte, ha creato nel tempo, per lo più lavorando nell’atelier ricavato a casa sua. Si tratta di una scelta radicale che privilegia la leggibilità dell’insieme. Questa bella antologia riesce efficacemente a portare lo spettatore dentro il variegato universo delle espressioni artistiche di Kiarostami e da lì a far intendere le connessioni tra queste varie arti. L’ingresso è gratuito, e la mostra rimarrà nei locali del Centre Pompidou fino al 26 luglio.