È un gran chiacchierone David O.Russell, uno di quei registi che di fronte alle domande non si risparmia. Anzi, risponde tutto d’un fiato, mentre l’interprete gli «corre» dietro ridendo. Non sa l’ italiano però riconosce con attenzione maniacale il suono delle parole, appena salta qualcosa interviene subito.

Parliamo del suo nuovo film, American Hustle, dell’Italia e del suo cinema di cui «adora» Fellini, Pasolini, Bertolucci, Anna Magnani, i «classici» che nel mondo continuano a essere il nostro immaginario. Degli attori che tornano nei suoi film, qui ritroviamo Christian Bale e Jennifer Lawrence, Amy Adams e Robert De Niro. E di musica, che adora: «Potrei andare avanti all’infinito» si scusa sorridendo dietro ai grossi occhiali da vista. In American Hustle, come negli altri film di quella che O.Russell definisce «la trilogia», The Fighter (2001) e Il lato positivo (2012), ha una funzione molto più importante di una colonna sonora. In The Fighter erano i Bee Gees con I Started the Joke – «La ascoltiamo in una scena tra Melissa Leo e Christian Bale. Era considerata orrenda invece io gliela faccio cantare. Mi piacciono i brani sottovalutati e mi piace usarli in modo inaspettato proprio come gli attori».

 Qui è Duke Ellngton con Jeep’s Blues che crea una scintilla tra Irving Rosenfeld (Christian Bale) e Sydney Prosser (Amy Adams). «La musica ha un peso crescente nei miei film, e stavolta ancora di più ci rivela i personaggi, ci dice del loro amore, dei momenti in cui gli si spezza il cuore. I film che ho girato prima sono stati una preparazione a questi ultimi tre. È come se The Fighter, Il lato positivo e American Hustle fossero nel mio destino».

Parlava di Duke Ellington. Perché ha scelto un suo brano?

L’idea era già nella sceneggiatura. Ellington ha registrato Jeep’s Blues negli anni Cinquanta, quando è tornato alla ribalta dopo un periodo difficile. È una rara registrazione dal vivo, infatti si sentono le voci degli altri componenti del gruppo. Ellington è morto nel ’74, e i personaggi del film si sentono un po’ come se fossero gli unici a conoscerlo ancora. Le sue creazioni hanno un tocco di eleganza speciale che per me è molto vicina a quella dei miei personaggi: anche loro sono artefici di sé stessi con una eleganza speciale. Non sono soltanto truffatori cinici e avidi, non farei mai un film su gente così. E non mi interessa nemmeno fermarmi al dolore o alla sofferenza. Mi piace invece la passione per la vita, e che nel film ci si interroghi sui personaggi. Vale in tutta la trilogia. Ai miei occhi sono figure al di là delle categorie come Ellington lo era nella sua musica.

Altri brani importanti sono quelli dell’Electric Light Orchestra. Abbiamo fatto vedere il film al suo fondatore, Jeff Lynne, gli è piaciuto molto e ha deciso di regalarci altri pezzi, sonorità diverse, influenzate più dai Beatles… Ricordo bene gli anni Settanta delle persone vecchio stile come era mio padre, un uomo d’affari integerrimo, e volevo restituire quello stile. La musica ancora una volta mi ha aiutato.

I protagonisti delle sue storie sono dunque più «forti» della storia stessa.

Farò un’altra digressione. Ho trovato la mia strada da regista in un periodo molto duro della mia vita che mi ha spinto a riflettere sulle cose in modo diverso. Quando in American Hustle Bale dice che le cose cominciano dai piedi e non dal cervello, per me è stata la stessa cosa. Ho un figlio bipolare, ho passato tanto tempo a cercare la musica giusta per lui. Poi ho divorziato, sono rimasto al verde… La vita mi ha messo in ginocchio, e allora ho smesso di pensare solo con la testa. La storia è importante ma sono soprattutto i personaggi che contano. Amo il loro mondo, come parlano, come mangiano, come fanno l’amore…

Per questo gli attori sono fondamentali. Nei suoi film ritornano, e funzionano così bene da arrivare agli Oscar.

Credo che sentono come ogni cosa venga dal mio cuore. E sanno quanto conta per me creare ruoli che li valorizzano, quando scrivo un personaggio è come se ci fossi io a interpretarlo. In questo modo riesco a spingere gli attori a rischiare. Nel periodo buio ho imparato l’umiltà, oggi so che è bene mantenerla. Si devono sempre sentire i morsi della fame per dare il meglio di sé.

«American Hustle» inizia con uno scivolamento di piani tra lo spunto di cronaca e gli elementi narrativi. Come ha lavorato alla scrittura?

Ci sono cose «vere» molto più strane di quelle inventate. Potrei fare un elenco di quello che è vero e quello che non lo è ma non penso che sia interessante. Ciò che conta dentro a tutte queste storie è il modo in cui esprimono un’idea di sopravvivenza, la spinta a tornare a galla. Però non voglio dire tutto, sarebbe come chiedere a un mago di svelare i suoi segreti. Quello che conta è che erano innamorati e avevano un gran cuore. Ciò non vuol dire che essere corrotti sia un bene, anche se paragonati a oggi, quelli erano tempi innocenti: bastava una valigetta di soldi mentre adesso si parla di cifre impossibili i trasferite da una parte all’altra senza che si sappia nulla. Ma una visione del mondo in bianco e nero non mi appartiene. Nei fatti, e in un racconto, ci sono sempre entrambe le cose.