Tra i versi del Cinque maggio Manzoni introduce la formula in cui dice di essersi smarcato, riguardo alla figura di Napoleone, tanto dal «servo encomio» dei cortigiani quanto dal «codardo oltraggio» degli opportunisti, che non mancarono, nell’un caso e nell’altro, specie fra i letterati italiani. Lo documenta con dovizia lo studio di Matteo Palumbo, Ei fu Vita letteraria di Napoleone da Foscolo a Gadda (Salerno editrice, pp. 100, € 9.40), una esquisse che unisce alla chiarezza analitica lo stile sobrio e pregnante.

Palumbo va alle figure essenziali di quella che già all’origine fu una vera e propria mitografia con il Prometeo dell’ineffabile Vincenzo Monti, il quale si rivolge al «cittadino generale» come al provvidenziale portatore del «foco della libertà».

E’ quest’ultimo il Napoleone di impavida e insolente bellezza che Antoine-Jean Gros ritrae al ponte d’Arcole ed è il medesimo che detta al giovanissimo Ugo Foscolo l’Oda a Bonaparte liberatore, versi rivolti a colui che il poeta in un discorso di poco successivo celebra con iperboli che non lasciano scampo e subito rammentano la regalità monumentale, sfolgorante, delle tele di un David o del nostro Andrea Appiani :«recuperator di Tolone, fulminatore di eserciti, conquistatore dell’Italia, e dell’Egitto, redentore della Francia, terror de’ tiranni e de’ demagoghi, Marte di Marengo, signore della vittoria e della fortuna, amico alle sacre muse, cultore delle scienze, profondissimo conoscitore degli uomini e (quel che ogni merito avanza) pacificatore d’Europa». Ma c’è in Foscolo un sospetto che nell’Ortis diviene oramai la certezza di una ambivalenza o piuttosto di una convivenza, in Napoleone, fra il condottiero entrato a Milano il 15 maggio del 1796 alla testa di un giovane esercito (tale l’incipit de La certosa di Parma) e viceversa il cinico uomo di potere che solo pochi mesi dopo abbandona all’Austria i patrioti veneziani, con il Trattato di Campoformio.

Paragoni poco lusinghieri
In altri termini, il monumento foscoliano a Napoleone coincide con l’erma bifronte di un Giano che ora agisce quale erede e prosecutore della Grande Rivoluzione ora invece si comporta da uomo di potere e da freddo despota. Quanto a ciò, emblematico è l’atteggiamento del Manzoni cui Palumbo dedica un passaggio di particolare precisione: Manzoni è il nipote imperterrito di Cesare Beccaria, il ventenne che a Parigi sentiva il cannone a salve da Montmartre celebrare i trionfi di Austerlitz e di Jena ma al presente, e alla morte del tiranno, è colui che sa scrutare la parabola napoleonica, la sua dialettica di orgoglio e umiliazione, da una prospettiva di ordine etico e religioso prima che politico e storico. Fatto sta che, tra Otto e Novecento, il Napoleone degli scrittori italiani (da Nievo e Svevo a Calvino e un recentissimo Michele Mari) più che altro corrisponde a un nome proverbiale, a un calco, a una icona convenuta dove fa eccezione il Gadda della pièce radiofonica Il guerriero, l’amazzone, lo spirito della poesia nel verso immortale del Foscolo la cui fama è legata specialmente ai sapidi insulti con cui lo scrittore bersaglia il vate dei Sepolcri trattandolo alla stregua di un fauno osceno ovvero di una verbosa bertuccia senza risparmiare l’eroe giovanile di colui.

Basti dire che Gadda chiama Napoleone semplicemente «Il Nano» irridendone le pose da rodomonte, la volgarità, la megalomania di provinciale mentre profana i versi che gli ha dedicato il poeta di Zante. Ma qui andrebbe anche detto, per inciso, che da giovane Gadda era stato interventista e poi un fascista della prima ora, infine tra guerra e dopoguerra il furibondo antifascista di cui dicono, ad esempio, Eros e Priapo e lo stesso Pasticciaccio: grande doveva essere però il senso di colpa e lunghissima la coda di paglia perché il suo Foscolo assomiglia in maniera inquietante a Gabriele d’Annunzio e Napoleone Bonaparte, va quasi da sé, a Benito Mussolini.