Chissà che jam session, lassù nel cielo dei freak, ora che sull’astronave stellare, la Jefferson Starship, passaggio riservato, è salito anche Marty Balin, settantasei anni di fuoco e di passione a incendiare i sogni di California cantati in mille brani che hanno lasciato un segno graffiante nelle coscienze di almeno un paio di generazioni: la prima, quella che lo ha vissuto in diretta, la seconda, quella cresciuta sui dischi ritrovati dei padri e già entrati nella leggenda, ora ristampati con mille cure in pregiate edizioni in vinile.

Prima di essere «startship», vascello spaziale come il Millennium Falcon di Ian Solo, dove Paul Kantner e (quasi) tutti gli altri decisero che avrebbero deciso di imbarcarsi, per staccare i contatti con un mondo che non se li meritava, quei sogni di libertà e visioni lisergiche («We are leaving, you don’t need us», cantava l’altro californiano David Crosby: «ce ne andiamo, non avete bisogno di noi») fu Jefferson Airplane, assai più concreto «aeroplano». E dell’aeroplano della controcultura californiana a volo radente sulle ipocrisie Marty Balin fu membro essenziale dell’equipaggio, a far data da un anno cruciale nella storia del rock e, in genere, di tutta la popular music, il 1965 di Rubber Soul dei Beatles e di Bringin’ it All Back Home dello «scandaloso» Bob Dylan elettrico. Quando le canzoni smisero di essere, appunto, solo «canzoni», nel senso broadwayano del termine, e diventarono, propriamente, inni generazionali con l’innesco della rivolta, di una nuova consapevolezza, e anche preziosi strumenti per sperimentare con la musica.

AL DRINKING GOURD

Nel ’65 il giovane Marty Balin, al secolo Martyn Jerel Buchwald, nato a Cincinnati, Ohio, cresciuto però nei dolci tepori della Bay Area, incontrò Paul Kantner, un ragazzo spiritato, buon chitarrista, pieno di idee nuove maturate su ottime letture, abbondanti libagioni di sostanze psicotrope e continui confronti con gli altri, tutti quelli che «non ci stavano» con un mondo a stelle e strisce in formato imperialista, consumista, narcotizzato dalle pubblicità televisive, aggressivo e razzista.

Si trovarono al Drinking Gourd, un locale dove le nuove idee sulla musica, la società, la morale erano carburante e ossigeno. Balin aveva già una qualche esperienza con le note: s’era fatto notare in una produzione di West Side Story di Bernstein, e da lì era riuscito a far sfoggio della sua bella e giovane voce tenorile, a vent’anni, in un paio di singoli che in California s’erano ascoltati con piacere, nei juke-box. Poi, come accade a tanti talenti precoci californiani dell’epoca, il contatto con il mondo del folk revival, come ad esempio stava succedendo anche, contemporaneamente, a Jerry Garcia futuro leader dei Grateful Dead, spesso sui palchi assieme ai Jefferson Airplane. Le avventure in folk del giovane Marty si chiamano TheTown Criers e The Gateway Singers. In quel filone avrebbero potuto trovar spazio anche le prime avventure dei Jefferson Airplane messe a punto con Paul Kantner nell’incontro al Drinking Gourd: ma, come cantava Bob Dylan a in quei medesimi anni, «qualcosa di nuovo stava succedendo», e solo i bravi ragazzi borghesi, «i clean cut kids» con la sfumatura alta, la camicia candida e i padri del Partito repubblicano fingevano di non accorgersene.

Così i Jefferson Airplane nati come ennesima creatura folk trovarono immediata e naturale evoluzione in uno dei più poderosi, fiammeggianti e deraglianti gruppi musicali elettrici della nuova controcultura «psichedelica» della California: un gruppo che dal vivo, come scrisse un irritato giornalista mainstream dell’epoca che li vide e ascoltò proprio all’esordio, «sembrava un ammasso di quadrupedi scalcianti». Graffiavano e incuriosivano i primissimi Jefferson Airplane con la formidabile triade Paul Kantner, Grace Slick alla voce, acida Alice nel Paese di nuove meraviglie, e, contraltare e doppio maschile, Marty Balin con la sua ugola intinta precocemente nel country, soul, nel rhythm and blues, nella storia, in fondo, di tutta la giovane popular music americana. Un gioco di sponda tra voci, chitarre sezione ritmica che non aveva praticamente eguali, negli altri gruppi psichedelici del momento: non nei Grateful Dead, che il raddoppio lo avevano nelle batterie, non nei Quicksilver Messenger Service, dediti a lunghe calcate chitarristiche, non negli intellettualistici Spirit di Randy California o negli oscuri H.P. Lovecraft, non nei Big Brother & The Holding Company, che pure ospitarono una delle grandi ugole nascenti del rock, Janis Joplin.

Un gruppo speciale che, come ha ricordato il chitarrista dei Jefferson Jorma Kaukonen nel suo blog, balzò fuori con la potenza di una reazione chimica inaspettata anche grazie a Balin: «Non fosse stato per lui e Paul Kantner, la mia vita avrebbe preso chissà quale piega. Loro due unirono le forze e scatenarono una reazione a catena che ha effetti concreti ancora oggi. Un momento di speciale e potentissimo sincronismo».

FREAK & FREE

Nell’ottobre del ‘65 Marty Balin tentò (e gli riuscì) anche il colpo gobbo nel diventare lui stesso organizzatore di spazi liberi e «freak»: sua l’idea di trasformare un ristorante in arena per selvagge e libere divagazioni rock, il Matrix. Aperto il 13 agosto al 3138 di Fillmore, distretto di Marina. Il posto dove si fecero le ossa i Doors di Jim Morrison, per capirsi, e tutti i nomi che contavano (e ancora contano) nel West Coast rock. L’hangar naturale dove trovava spazio il Jefferson Airplane, ovviamente. Marty Balin assecondò, favorì, indirizzò il volo radente dell’Aeroplano dal 1966 di Takes Off, un decollo che lascia il segno (lui è coautore di almeno cinque brani), al 1970, quando Paul Kantner aveva preso la strada cosmica della «starship» in Blows Against the Empire, un disco che chiama a raccolta quasi tutta la California controculturale (in pratica i Jefferson con parte dei Quicksilver, i Grateful Dead, David Crosby, Graham Nash), ma esclude proprio Marty Balin. Troppo forti le divergenze e lo scontro di ego tra Kantner, Grace Slick (che nel frattempo era diventata anche la compagna di Kantner) e Balin. Eppure lui era stato quello che riusciva a mantenere il controllo quando i lupi del business musicale allungavano le zampe. Eppure lui, di suo pugno, aveva regalato all’Aeroplano nel memorabile, bruciante primo volo brani come It’s No Secret, Today, Share a Little Joke, e soprattutto l’epocale inno rock Volunteers, che merita un discorso a parte, e dà anche il titolo a un lavoro tanto importante, nella storia del gruppo, quanto visto con sospetto e ritardato nell’uscita dalla casa discografica.

In copertina a Volunteers del ’69 ci sono tutti, in pieno look freak, alle spalle c’è la bandiera a stelle e strisce, screziata di strisce sporche e nerastre. È la sporcizia di quella parte d’America che manda i ragazzi a morire nelle paludi del Vietnam, ad ammazzare contadini partigiani, e condanna chi si rifugia in Canada per sfuggire la leva, come cantarono Nash in Immigration Man e Country Joe McDonald in I Feel Like I’m Fixin’ to Die Rag. Loro, i Jefferson Airplane, indicano una nuova via al volontariato: i «volontari» qui, sono tutti coloro che hanno a cuore le nuove (e antiche) ragioni della terra, e odiano la retorica delle armi e delle uniformi. Certo, mezzo secolo dopo possono anche sembrare ingenue certe formulazioni. Non lo erano allora, quando il napalm americano bruciava le foreste e la carne viva dei vietnamiti, e ben contestualizzate non lo sono oggi, specie se si presta orecchio all’incandescenza sonora che riuscivano a raggiungere i Jefferson Airplane prima maniera.

FESTIVAL

Ci sarà uno iato crudo e secco di cinque anni, per Marty Balin con i Jefferson. Ma prima è il caso di ricordare le frastornanti avventure sonore dei Jefferson allo Human Be-In di San Francisco, 1967, al Festival pop di Monterey, a Woodstock, ad Altamont, il festival «maledetto» organizzato dai Rolling Stones sulla costa Ovest in cui muore il giovane afroamericano Meredith Hunter, assassinato dagli Hell’s Angels e in cui lo stesso Balin se la vede brutta. Finisce per essere pestato a sangue mentre sta esibendosi sul basso palcoscenico del festival con i Jefferson Airplane dai temibili Hell’s Angels, per aver tentato di difendere un ragazzo in difficoltà. I biker razzisti stavano accanendosi con mazze e stecche da biliardo sul pubblico, colpevole di essere troppo hippie, poco disciplinato e troppo infiltrato da neroamericani: dal palco lui cerca di farli smettere, e finisce nel tritacarne degli stivali chiodati e dei tirapugni. È un episodio, ma significativo.

Lui allora cerca di archiviare la clamorosa avventura con i Jefferson, peraltro al momento, secondo la sua testimonianza, in pieno sfascio da cocaina in dosi industriali approdata a Frisco, a sostituire erba e acidi, e si butta allora a far da manager a miriadi di gruppi cresciuti anche all’ombra dei Jefferson. Sceglie anche di unirsi ai Bodacious D.F., un unico disco come risultato, nel ’73, tutt’altro che memorabile, nella proposta di un rock blues anonimo che la California rock aveva già praticato in mille declinazioni diverse. Poi, una sorta di «ritorno a casa», con i Jefferson Airplane. Che hanno cambiato nome e organico, e sono diventati «starship», nave spaziale nelle mani di Paul Kantner, e con l’abbandono di Jack Casady e Jorma Kaukonen, intenzionati a rivedere le proprie radici folk, blues e hard rock con i peraltro magnifici Hot Tuna.

È una strana creatura, l’astronave Jefferson: non ha più la dirompente carica politica dei primi Jefferson, eppure in qualche modo ne conserva energia e eccellenza nel songwriting, bordeggiando sponde più vicine al mondo radio- friendly. Marty Balin lascia il segno anche lì, costruendo una delle più belle ballad mai uscite dalla terra di California anni Settanta: è Miracles, in Red Octopus, un brano che da solo vale l’intero disco. La Starship incassa bene, ma è (quasi) solo un oliato e perfetto meccanismo da industria dello spettacolo. Tant’è che Grace Slick, dimenticati i furori acidi degli esordi comincia a pensare più alle bottiglie di bourbon che alla presenza magnetica in scena, e nel ‘78 Balin scende a terra, piuttosto avvilito. Anche perché Slick ha il carisma, lui no, è un artigiano che sa costruire canzoni memorabili e far da spalla, ma alla fine la gente guarda la bella signora attira sguardi, non lui. Non sarà la fine del suo percorso sonoro: nel mezzo ci saranno molti dischi solistici di onesto artigianato rock, buoni per un pubblico medio, ma con discrete vendite, e senza più le punte urticanti degli anni Sessanta.

Risale a bordo della Starship nel 1989, l’anno in cui crolla il Muro di Berlino, e l’astronave è diventata di nuovo, con qualche tonnellata di nostalgia in più, Airplane, per uno di quei giochi alla reunion che fanno felice qualche fan con i capelli radi e ingrigiti, ma lasciano il cuore freddo. Anche se c’è un disco nuovo da promuovere. Quattro anni dopo è di nuovo con la Starship: e ci rimane fino al 2008. È lo stesso anno in cui comincia a riflettere sulla musica che amava da giovane, prima dell’incalzare dei tempi della psichedelia ruggente, e nascono le Nashville Sessions. Quindici anni di ripasso, in fondo. Una medaglietta guadagnata con la premiazione alla Rock & Roll Hall of Fame, nel ‘96, e poi meglio guardare altrove: ad esempio tornare a quella purezza folk che era tutta sua, alle origini. Ecco allora Marty Balin nei mille club californiani, a ripercorrere le vie del country, del blues, del rhythm and blues con un trio acustico. È un uomo felice, in realtà: «Mi diverto, mi sposto da una canzone all’altra a seconda dell’estro, ho il tempo di accordare e di lasciare che le persone si accendano una sigaretta.

Non ci sono problemi di ego ipertrofici, competizioni. Mi sembra quasi di volare sulla musica».

CUORE MATTO

I Jefferson rimangono in un rifugio segreto del cuore, ma ci sono, in spirito: tant’è che nel 2015, anno che coincide con il cinquantesimo anniversario della band, lui pubblica Good Memories, ventiquattro canzoni rivedute «alla Balin» per ripercorrere le scie aeree del Jefferson Airplane. Nel 2016 i Jefferson Airplane ricevono un altro premio, questa volta alla carriera. Lui non c’è: l’hanno ricoverato d’urgenza per un brutto attacco di cuore, durante un concerto a New York. Gli innestano tre by-pass, ma sbagliano una tracheotomia che lo lascia semiparalizzato e senza più la voce per cantare. Ma lo spirito è ben saldo, e ai compagni di tante scorribande sonore invia un ultimo messaggio che dice: «Sono grato per lo splendido viaggio musicale che è stata la mia vita. Ringrazio tutti coloro che mi sono stati accanto nei Jefferson Airplane, in tutte le metamorfosi che il gruppo ha avuto. Un sogno che è stato realtà»

FUORI I DISCHI

Jefferson Airplane, Takes Off, 1966
Un decollo mozzafiato, per l’Aeroplano psichedelico. La cloche è salda nelle mani di Paul Kantner e Marty Balin, Grace Slick non c’è ancora, salirà sul palco per la prima volta con i Jefferson il 16 ottobre al Fillmore Auditorium. La voce femminile è di un’altra signora spesso dimenticata negli annali del grande rock, Signe Anderson, che quando partorisce la sua prima figlia, Lilith, decide di lasciar perdere il rock. Il primo volo è folk-rock elettrico già ben scritto e ben suonato, ma ancora la potenza di fuoco non è dispiegata appieno. In compenso la scrittura di Balin è solida e tutta sostanza, forse davvero il primo esempio pratico di «San Francisco Sound» applicato: firma o co-firma la maggior parte dei brani, e la sua voce non deve competere con la presenza «a tutto tondo» di Grace.

Jefferson Airplane, Surrealistic Pillow, 1967
Forse «il» disco dei J.A. Titolo assai curioso, «cuscino surrealistico»: pare suggerito da Jerry Garcia dei Grateful Dead, che, non accreditato, suona in diverse tracce. È arrivata Grace Slick, e si sente. La splendida e scapestrata vocalist, che maneggia sostanze psicotrope, amanti e voce con divina nonchalance porta in dote due pezzi da manuale psichedelico, a cominciare da Somebody to Love, precedentemente cantata con la sua band pre-Jefferson, The Great Society. Un botto: diventa l’inno dei giovani hippie del quartiere bohémienne di Haight- Ashbury a San Francisco, e lei la Acid Queen. E poi, a rinforzo, scrive White Rabbit, ispirandosi ad Alice nel Paese delle Meraviglie, aiutandosi con parecchio acido lisergico. Un bolero-rock affrontato con una flessuosa e inquietante voce melismatica, suggerita da Paul Kantner. Balin deve fare un passo indietro: ma il peso compositivo si sente, e nasce anche il curioso «passavoce» dei Jefferson in cui si alternano unisoni vocali imperiosi di Slick, Balin e Kantner, e strofe o singoli versi cantati a turno. Balin e Slick ancora non si guardano in cagnesco: assieme scrivono la delicatissima Today.

Jefferson Airplane, After Bathing at Baxter’s, 1967
Nuovo disco sei mesi dopo il precedente, una creatura sonora anarchica e imprendibile, forse anche troppo coraggiosa esce dalle menti dei Jefferson. C’è molta improvvisazione, molti suoni inusitati intuiti nelle tumultuose giornate farcite di acido lisergico, e gran spazio per la scrittura di Paul Kantner, che firma la poderosa Ballad of You & Me & Pooneil e la struggente Martha. I brani fluiscono l’uno nell’altro, come in suite deliranti. Grace Slick cerca di scrivere un’altra White Rabbit con Two Heads, ma la maestosità della prima uscita è un miraggio. Pura psichedelia, insomma, e Marty Balin, messo un po’ alle strette dalla voglia di sperimentare lascia il segno con uno degli episodi più solidi e strutturati del disco, che peraltro lascia una strana sensazione di vaghezza: Young Girl Sunday Blues.

Jefferson Airplane, Crown of Creation, 1968
La copertina esorcizza le contemporanee paure per la bomba atomica, tutt’altro che un’ipotesi, a quanto appreso dai documenti emersi dagli archivi, in cui la tentazione di un «first strike» su Russia sovietica e Cina era tutt’altro che scartata. Il percorso sonoro, come ormai è prassi per i Jefferson, è aggrovigliato, fatto di successioni di strati sonori che disorientano e ammaliano al contempo. Un paio di brani rock aggressivi e diretti, un prestito da David Crosby, Triad, che Grace Slick riesce a trasfigurare in pura bellezza, un esercizio rumoristico, Cushingura, una ballata folk, Lather. Quattro pezzi su undici sono scritti da Balin: che in If You Feel si supera, e dà parecchio filo da torcere alla stessa Slick.

Jefferson Airplane, Bless It’s Pointed Little Head, 1969
L’unico disco «live» dei primi Jefferson, per lungo tempo. «Sia benedetta la sua piccola testa a punta» (sarcasmo per i missili delle superpotenze) mostra la potenza della band dal vivo, più declinata su versanti rock blues puri che psichedelici. Marty Balin qui è in forma smagliante, e per una volta è sua la voce dominante sul palco.

Jefferson Airplane, Volunteers, 1969
Il disco più politico dei Jefferson, invito diretto di Balin, che scrive il pezzo che intitola, a diventare i nuovi «volontari d’America» contro militarismo e bravi borghesi ipocriti. Ospiti eccellenti: Nicky Hopkins al piano, Jerry Garcia alla chitarra, e ancora una versione straniante di un pezzo di Crosby, Wooden Ships, resa con particolare magia. Richiami alla terra, alla nuova coscienza individuale e collettiva: un disco manifesto, che si ama o si ignora. L’ultimo prima dell’abbandono di Balin.

Jefferson Starship, Dragonfly, 1974
I secondi Jefferson, dopo l’abbandono di Jorma Kaukonen e Jack Casady. Con molta disillusione, e un suono che comincia a svoltare verso orizzonti pop più diretti e levigati. Che garantisce esiti milionari alla band del ritorno, mai raggiunti prima. Però, a sorpresa, Marty Balin fa una comparsata, e quando canta Caroline tornano i brividi. Succederà la stessa cosa con il successivo Spitfire, 1975 dove Balin però è di nuovo coautore della gran parte dei brani: Miracles è, davvero, il miracolo finale.