Giulio Camillo, amico di Ariosto e di Tiziano, di Pietro Aretino e di Lorenzo Lotto, era basso di statura, corpulento, geniale e coltissimo, un po’ folle come ogni donchisciotte perso dietro a un suo mondo alternativo, affascinante seduttore e sognatore con un’idea fissa, fra le più belle e anticipatrici dell’età moderna. Girava di corte in corte, da Ferrara alla Francia, per dar corpo al suo grande progetto, che chiamava il Teatro della Memoria, o anche della Sapienza. Era insieme un libro e un anfiteatro: un luogo fisico, costruito con il legno e riempito di quadri e di libri, e uno spazio mentale, il modello astratto di un processo di edificazione interiore, non troppo dissimile da un esercizio spirituale, di quelli che a partire dal 1540, forse ispirandosi anche al Teatro camilliano di cui poté sentir parlare durante il suo soggiorno a Parigi, Ignazio di Loyola cominciò a praticare a Roma.

Invasato da un fuoco sacro Camillo balbettava, si emozionava, non riusciva quasi più a parlar latino mentre accompagnava gli esploratori invitati ad affacciarsi a quel suo universo in un percorso iniziatico fra i più straordinari che l’Occidente abbia conosciuto. Il progetto era di insegnar loro a ricostruire artificialmente lo spirito, imparando a classificare l’intera sapienza umana, tutte le parole, tutte le idee pensabili e a raggiungerne le radici profondissime, cogliendo sul nascere le immagini e apprendendo l’arte di produrne sempre nuove, in un ordinato proliferare dell’immaginazione creatrice.

Così, performativamente, insegnava ai suoi ospiti-iniziandi l’arte della memoria e della metamorfosi spirituale. Lo descrive con toni un po’ critici, leggermente maligni, l’oscuro Viglio da Zwichem in una lettera al suo celebre amico Erasmo da Rotterdam, con cui Camillo aveva avuto una polemica sul classicismo. Il Teatro di Camillo, scrive Viglio, è un edificio di legno, suddiviso in sette gradinate «tagliate» su sette livelli corrispondenti a sette pianeti, che identificano quarantanove «luoghi», spazi fisici e insieme mentali costellati di quadri allegorici e di libri su cui occorre concentrarsi (così balbettava Camillo, e riferiva, acidulo, Viglio) per poter compiere la trasformazione della propria anima. Camillo lo definiva «mens fenestrata» e «animus fabrefactus»: e Viglio non capiva che cosa significasse quel sondare le profondità della mente leggendola attraverso «finestre», quel volere «ricostruire l’anima» come se fosse un’opera d’arte, dominando i meccanismi del suo funzionamento e imparando a orientarli e a riplasmarli.

Un semplice umanista di cultura molto tradizionale non poteva capire. Camillo non solo coniugava il suo classicismo in una dimensione estetica e poetica già manieristica: era avanti di secoli, pensava come un uomo moderno. Si direbbe un nostro contemporaneo: sembra aver colto con secoli di anticipo – potendo però contare su dispositivi concettuali e materiali ancora inadeguati all’eccezionalità del progetto, che infatti fallì – il senso dell’intreccio complesso fra parole e immagini, memoria e inconscio, autenticità e artificio, tipica del pensiero psicoanalitico, delle neuroscienze, dell’iconologia, dell’informatica e della comunicazione multimediale maturata nel tempo nostro. Lo sentiamo come un inquieto e coraggioso compagno di strada, riconosciamo in lui prospettive e intuizioni modernissime, che infatti hanno conquistato alcuni dei moderni: Aby Warburg, per esempio, che per edificare la biblioteca dei saperi umanistici intitolata Mnemosyne e per elaborare l’Atlante reticolare di immagini «dinamiche» ad essa collegato, pensò proprio al Teatro di Camillo e a quello di Giordano Bruno, che a sua volta ne aveva tratto ispirazione.

Negli ultimi decenni una formidabile ripresa delle ricerche intorno all’aggrovigliata questione testuale, ai suoi rapporti con le mnemotecniche medioevali e moderne e con l’arte figurativa del primo Cinquecento, ha consentito di riscoprire il Teatro di Giulio Camillo, facendolo finalmente riemergere dai secoli di oblio in cui lo aveva affondato il disdegno illuministico verso qualsiasi idea che avesse sentore d’irrazionalismo, di magia, di cabala, di spiritualità neoplatonizzante. Con solida cura filologica ci restituisce oggi questa meraviglia della civiltà cinquecentesca, mettendone in luce le innumerevoli relazioni con la rete della cultura manieristico-barocca, ma anche i molti punti di vista di sorprendente attualità, la migliore specialista del tema, Lina Bolzoni, che anni fa, in due bellissimi libri (Il teatro della memoria, Liviana, 1984; La stanza della memoria, Einaudi, 1995), aveva già offerto la più sottile, ricca e originale lettura del Teatro camilliano e del suo ruolo nella formazione della rete di saperi, in quell’età cruciale che unisce e separa Ariosto, Bembo e Tiziano da Tasso, da Athanasius Kircher, da Caravaggio.

Lina Bolzoni pubblica ora presso Adelphi la prima, tanto attesa quanto preziosa e da oggi imprescindibile, edizione critica e commentata dell’Idea del theatro Con «L’idea dell’eloquenza», il «De Transmutatione» e altri testi inediti (pp. 325, euro 70,00) , che è una sorta di sintesi d’autore di un’intera vita di letture, di progetti complicati e sempre mutevoli, di ricerche matte e disperatissime. Camillo l’avrebbe composta in soli sette giorni poco prima di morire, nel 1544, secondo una testimonianza dai toni un po’ mitografici del suo amico Girolamo Muzio, che gli era accanto alla corte del vicerè di Milano, il Marchese Alfonso d’Avalos, anche lui perdutamente innamorato del progetto camilliano, così come una ventina d’anni prima lo era stato il re di Francia Francesco I. Il testo fu pubblicato postumo, nel 1550, ed ebbe grandissima diffusione anche nella ripresa con altre opere di Giulio Camillo sul finire del Cinquecento. Ora Lina Bolzoni introduce nell’esame dell’iceberg sottostante all’Idea molti materiali manoscritti, alcuni dei quali finora sconosciuti: il Teatro è un universo in espansione, una «galassia di testi» in movimento, dinamica e metamorfica proprio come la macchina spirituale che vi viene descritta, pensata per trasformare l’interiorità in «mente dotata di finestre» e «anima artificialmente ricostruita».

L’introduzione, magnifica, vale già da sola come viatico ai temi non solo relativi a Giulio Camillo, ma largamente rinascimentali, dell’imitazione dei classici, della formazione di un gusto manieristico nel legame fra testo e immagine, dell’ars della metamorfosi spirituale. In modo speciale vi si propone la chiave storico-culturale delle arti della memoria e del loro rapporto con l’arte figurativa e con l’architettura.

Camillo fu amico intimo del Pordenone, di Francesco Salviati, di Tiziano, di Lorenzo Lotto, di Sebastiano Serlio, e il suo teatro si intreccia con molte delle loro opere in percorsi ancora in parte da svelare: soprattutto, credo, nella direzione della Galleria che Francesco I fece realizzare a Fontainebleau da Rosso Fiorentino e da Francesco Primaticcio, e che a me sembra direttamente connessa al Teatro, in un reticolo di relazioni iconografiche in cui si trovano coinvolte la Camera di San Paolo di Correggio a Parma, l’annessa stanza allegorica di Alessandro Araldi, l’ancora inedita casa del Pordenone nell’omonima città.

Tutti gli strumenti necessarî a entrare, senza poi smarrirsi, nel labirintico Teatro di Camillo vengono messi a disposizione del lettore da Lina Bolzoni, che dimostra come quel teatro sia in primo luogo «una grande macchina per l’imitazione letteraria», utilizzabile nello stesso tempo «per costruire qualcosa di simile nelle arti figurative», dal momento che «per Camillo il letterato e l’artista operano su materiali diversi, ma seguendo procedure idealmente identiche». Una minuziosa, «spossante “anatomia” cui Camillo sottopone i testi presi a modello» permette di dislocarne gli estratti sui “gradini” del teatro di legno (ma anche nei fogli dei libri preparati con rubriche e indicatori grafici come un manuale +mnemotecnico). Accanto ai testi verbali Camillo collocava dipinti di carattere allegorico (sappiamo che ne chiese a Francesco Salviati e a Tiziano Vecellio; ma i libri sono stati distrutti dalla cattiva fortuna: anche su questo piano l’inchiesta è aperta). Insieme, libri e quadri alludevano a un reticolo di associazioni fra immagini collegate mentalmente su una virtuale «scacchiera» che ne moltiplicava i significati: ed è proprio su questo piano che l’Idea del theatro, ai primi del Novecento, eccitò l’immaginazione di Aby Warburg in vista del grande progetto di Mnemosyne, la Memoria, una macchina mnemotecnico-iconografica fatta di sole immagini connesse dalla mente profondamente concentrata attraverso l’affinità di segni e di sensi.

Ecco, è questo il segreto del Teatro di Camillo, che Viglio di Zwichem e gli altri contemporanei, stupefatti e turbati, non potevano cogliere. Il Teatro è «un puzzle», «un mosaico continuamente costruito e rifatto», sfuggente, inafferrabile. Cercarlo nella selva dei plagi è un po’ una “ricerca dell’assassino”». Molteplice e mutevole, è uno e infinito, come la Biblioteca di Babele borgesiana e come quella utopizzata dall’«Accademia Veneziana della Fama, che ebbe vita splendida ma effimera» qualche anno dopo la scomparsa di Camillo. È nello stesso tempo un oggetto di legno, un anfiteatro pieno di manoscritti e di quadri, che riprende lo schema dal De Architectura di Vitruvio pubblicata nel 1511 da Fra Giocondo da Verona, molto legato anche lui agli ambienti dell’umanesimo italiano e francese. Ma è anche un libro: anzi molti libri e appunti e abbozzi e schemi, o forse proprio «una grande biblioteca dotata di un catalogo per immagini» e che «rende visibile l’enciclopedia» sottostante; e nel contempo un vortice di carte che si attraversano e si innestano reciprocamente, che si moltiplicano, rendendo difficile restituire «un» solo stato del testo, e invece proponendo l’inquietante modello, appunto, di una «galassia di testi» in espansione, imprendibile nella sua natura proteiforme.

Soprattutto è la mente stessa di Camillo, che si trasforma via via che prende figura e corpo l’idea, e si fa libro, e anfiteatro, e biblioteca e mille altre «cose» tutte insieme: oggetto virtuale metamorfico, già potenzialmente barocco e perfino novecentesco come pochi altri capolavori del Rinascimento.

L’idea forte di Camillo, «il suo inedito e insolito gusto sperimentale», consiste nell’offrire a ciascun lettore, come ogni autentico maestro iniziatico, il modello di un esercizio spirituale, la griglia delle operazioni interiori da compiere per realizzare, in un processo iniziatico radicale, «la costruzione di un ordine totalizzante e “visibile”», «un nuovo linguaggio universale». Insomma, il Teatro è davvero «una mente artificiale» che diviene «l’immagine del cosmo», l’«ombra del divino archetipo», «un vero thesaurus della memoria iconografica».
L’architettura del Teatro di Camillo è mentale e cosmica, simile a quella che Henri Corbin riconobbe nel pensiero islamico: «la struttura della Tenda discesa dal Cielo e che l’angelo Gabriele erige per Adamo è quella di una forma spirituale che contiene in sé il suo universo». Il fine è ambizioso oltre ogni limite: ricreare sé stessi, la propria mente, tutta intera la propria interiorità, e così ricreare il mondo.