Rasha ha 28 anni, un bambino di tre anni tra le braccia e un altro in arrivo. Mercoledì ha camminato con il marito per chilometri verso il primo checkpoint utile per il Kurdistan. Il suo villaggio, Hamdaniya, ultimo target dei miliziani islamisti, è oggi una comunità fantasma: migliaia i civili in fuga verso Irbil, terrorizzati dalle conseguenze dell’occupazione del gruppo estremista sunnita. Rasha spera di trovare un luogo dove rifugiarsi, altrimenti, sospira,«dormiremo in strada».

Nelle stesse ore, quello che resta dell’esercito governativo – a cui si sono uniti nelle ultime due settimane due milioni di volontari sciiti – combatteva a Balad, a nord della capitale. Scarsa la presenza di truppe regolari nelle regioni settentrionali, quasi del tutto occupate dai jihadisti e in parte controllate dai peshmerga curdi. Irbil sta ottenendo consistenti vittorie nella strada per l’indipendenza, andando a prendersi le posizioni abbandonate dall’esercito iracheno.

Proseguono intanto gli scontri intorno alla raffineria di Baiji, parzialmente in mano all’Isil, che ieri ha occupato altri pozzi di petrolio vicino Baghdad, a Mansouriyat al-Jabal. Battaglia in corso tra esercito e miliziani anche all’università di Tikrit, mentre bombe governative piovevano sul complesso presidenziale della città natale di Saddam Hussein, il cui fantasma aleggia sull’attuale crisi irachena.

L’autoritarismo del rais, che seppe tenere insieme etnie e sette religiose, è oggi motivo di rimpianto per molti in Iraq. Come funghi riappaiono le milizie baathiste, oggi al fianco dell’Isil per riprendersi il paese. Un’alleanza vitale: i generali dell’ex regime conoscono a menadito il territorio e godono di un’organizzazione militare di livello. La presa di Mosul, si dice, sarebbe stata possibile grazie al fondamentale intervento baathista, che scombina le carte del gioco delle alleanze regionali.

Se, infatti, a destabilizzare l’amministrazione Washington non fosse bastata l’occupazione di un terzo del paese, invaso dalle truppe Usa e poi abbandonato non a godersi la “democrazia”, ma in preda a catastrofici settarismi interni, oggi ci si mette anche Damasco. Il regime di Assad, la cui caduta è da almeno tre anni l’obiettivo della Casa Bianca, ha optato per un intervento nel vicino Iraq nello stile di quello perpetrato in casa: bombardamenti dell’aviazione contro le postazioni jihadiste. Uno sconfinamento che il premier iracheno Maliki ha salutato con entusiasmo, al contrario dell’alleato (quasi ex) statunitense.

Tre giorni fa aerei militari siriani hanno preso di mira la provincia sunnita di Anbar. Colpita la città di Al Qaim, al confine tra Iraq e Siria e caduta nelle mani dell’Isil che ha potuto così proseguire indisturbato il traffico di armi e miliziani da una parte all’altra della frontiera. Domenica jeep Usa in dotazione all’esercito iracheno correvano per le strade della provincia di Aleppo. Ieri il governo di Baghdad ha confermato i bombardamenti, provocando la reazione del segretario di Stato Usa. Kerry, che a inizio settimana ha fatto visita a Maliki per convincerlo a cedere alla creazione di un governo di unità nazionale, se ne è ripartito a mani vuote, imbarazzato dal no del premier che ha nella pratica smentito la notizia di un nuovo esecutivo di larghe intese che lo stesso Kerry aveva dato per certo.

«Abbiamo reso chiaro a tutti nella regione che non abbiamo bisogno di interventi che possano esacerbare le divisioni – ha detto Kerry da Bruxelles – È importante che niente infiammi i settarismi». Un discorso chiaramente rivolto a Damasco e Teheran, già attivi: la Siria vuole impedire una crescita sproporzionata dei gruppi di opposizione al regime e l’Iran (che starebbe inviando armi automatiche e missili, oltre a droni di ricognizione) intende usare Baghdad come piede di porco per ribaltare definitivamente gli equilibri mediorientali, oggi favorevoli alle petromonarchie sunnite del Golfo. Seppure gli interessi di Washington siano inaspettatamente gli stessi dei due nemici, Obama non può permettersi di lasciare spazio di manovra a Teheran né rafforzare indirettamente il regime di Damasco senza gestirne modalità e conseguenze.

In casa Maliki balla da solo e, dopo aver rifiutato i caldi inviti della Casa Bianca a farsi da parte, ha detto ieri di volersi attenere alle tempistiche previste dalla legge: martedì il parlamento eletto a fine marzo si riunirà per nominare il presidente a cui spetterà il compito di indicare il capo del governo. Maliki tenta di destabilizzare il frammentato fronte delle opposizioni per garantirsi la maggioranza: da una parte, accusa le fazioni sunnite di aver complottato con l’Isil per riconquistare Baghdad; dall’altra usa la chiamata alle armi del leader religioso sciita Al-Sistani per convincere i partiti sciiti ad aderire al suo governo.

In un simile contesto, l’Arabia saudita –finanziatore dei gruppi radicali sunniti in Siria e Iraq – non resta a guardare: il re Abdallah al-Saud, che oggi incontrerà Kerry, ha fatto sapere di voler prendere tutte le misure necessarie alla salvaguardia degli interessi nazionali. Ovvero, delle reti di potere occulte diramate in tutto il Medio Oriente.