Quando muore un uomo come Antonio La Penna non ci si può fermare a un bilancio dei suoi innumerevoli contributi di studioso, ma bisogna analizzare – come fa Mario Citroni in questo stesso numero di «Alias» – l’influsso che egli ha esercitato sulla cultura del proprio tempo, stimolando allievi, emuli, avversari. È d’altra parte inevitabile che in una circostanza come questa si senta il bisogno di riesaminare e ridiscutere le opere maggiori del grande maestro scomparso. Spinto da questo impulso, e anche dalla pubblicazione di un recente volume su cui torneremo, ho ripreso in mano l’edizione critica dell’Ibis di Ovidio con amplissima introduzione e ricchissimo commento che La Penna pubblicò a trentadue anni (era il 1957) nella «Biblioteca di Studi Superiori» della Nuova Italia.

Cos’è l’Ibis e cosa spinse La Penna a occuparsene? L’Ibis è un poemetto in distici elegiaci di 644 versi scritto da Ovidio, con ogni verisimiglianza nell’11 d.C., a Tomi (l’odierna Costanza, in Romania), dove era stato relegato da Augusto tre anni prima. Composto – si può ipotizzare – in un momento di melancolia profonda, il poemetto è una sofisticata e virulenta maledizione che Ovidio scaglia contro un suo implacabile nemico, che a Roma lo calunnia senza sosta, «tormentandone spietato le ferite che cercano pace» (v. 13) e perseguitandone anche la moglie (v. 16). Il poemetto è suddiviso in due parti: la prima (vv. 1-250) consta di un segmento introduttivo seguito da un’elaborata serie di formule di malaugurio; la seconda, chiusa da un epilogo di sei versi, è costituita da un interminabile catalogo di exempla mitici e storici raccapriccianti, spesso evocati attraverso allusioni criptiche, attraverso i quali Ovidio elenca le atrocissime sofferenze che augura al nemico, a cui attribuisce l’intenzione – come si desume dal v. 21 – di aggravare attraverso la calunnia la pena inflitta al poeta, nella speranza di trarre profitto dall’eventuale confisca dei suoi beni (si ricordi che la relegatio a cui Ovidio era stato condannato non implicava, a differenza dell’exilium, la perdita dei diritti civili e del patrimonio). Di questo abietto calunniatore Ovidio tace il nome, utilizzando sempre per indicarlo lo pseudonimo di Ibis, da cui il poemetto trae il titolo. Lo pseudonimo è scelto sulla base di una immonda abitudine che gli antichi attribuivano all’ibis, famoso uccello egiziano che ora in realtà, a causa dei cambiamenti climatici, non nidifica più in Egitto bensì in Italia (io l’ho visto qualche volta nelle lagune del mio borgo natìo, Comacchio, assieme a fenicotteri rosa e ad altri uccelli nilotici). Secondo l’erudizione zoologica antica l’ibis soleva infatti purgarsi spruzzandosi acqua nell’ano con il becco, usato a mo’ di clistere.

Questa bizzarra operetta – affascinante nella prima parte, tediosa e contorta nella seconda – non è un frutto spontaneo della fantasia di Ovidio, ma trae dichiaratamente ispirazione (cfr. i vv. 55-62; 449-450) dall’Ibis di Callimaco, un poemetto perduto nel quale la figura che veniva insultata e maledetta era probabilmente Apollonio Rodio, l’autore delle Argonautiche. Non sappiamo invece chi fosse l’Ibis contro cui Ovidio vibrava i suoi dardi. Molte ipotesi di identificazione sono state proposte; nel 2011, ad esempio, è stata rilanciata da Alessandro Schiesaro, con argomenti sottili e raffinati, una congettura risalente a Brunetto Latini, secondo cui Ibis sarebbe stato addirittura Augusto. A me pare tuttavia più probabile un’altra ipotesi, secondo cui Ibis non sarebbe una figura precisa ma rappresenterebbe tutti coloro a cui Ovidio imputava la propria rovina. Quest’ipotesi fu proposta nel 1920 da un grandissimo filologo classico inglese, morto ventun anni prima che l’edizione dell’Ibis a cura di La Penna vedesse la luce: mi riferisco ad Alfred E. Housman, che senza dubbio è stato assieme a La Penna il maggiore studioso del poemetto ovidiano.

Housman, che pubblicò sull’Ibis cinque articoli scintillanti, e che ne diede alle stampe nel 1894 una fondamentale edizione critica, si considerava, con giustificato egotismo, «il primo editore ad aver mai letto realmente l’Ibis», ovverosia il primo che avesse provato a costituirne il testo cercando di capirlo. Pur avendo dato contributi decisivi al restauro e all’interpretazione di innumerevoli luoghi dell’operetta, Housman, d’altra parte, non pubblicò mai un commento all’Ibis e non ne studiò capillarmente la tradizione manoscritta. Quando La Penna, che ammirava Housman, decise di colmare queste due lacune, il commento di riferimento all’Ibis continuava a essere quello – del 1881 – di Robinson Ellis, studioso di vasta dottrina ma di intelligenza critica non acuminata e non sempre vigile. Housman condannava senza appello il commento all’Ibis di Ellis, che derise in un distico latino in cui ironicamente dava la parola a Ibis: «At, precor, ultores in me mala carmina facta / Ellisio tradant emaculanda dei», «Prego gli dèi vendicatori che le nocive maledizioni contro di me le diano da ripulire (ossia da emendare) a Ellis»: a Ovidio, che aspirava all’immortalità poetica, era toccato il castigo peggiore che gli poteva essere augurato dal suo peggior nemico, ossia essere edito ed emendato (immo deturpato) da Ellis, a cui Housman attribuiva «the intellect of an idiot child»!

La Penna riuscì mirabilmente nel suo intento: la sua edizione critica con commentario, tuttora insuperata quale sussidio all’interpretazione dell’Ibis, non solo soppiantò quella di Ellis, ma si impose come un esempio insigne di erudizione, acribia, senso storico e anche senso comune (La Penna non si lancia mai in ipotesi ardite e indimostrabili, ma tende sempre a considerare perditum quod periit). Si noti peraltro che i risultati della ricognizione sistematica ed eccezionalmente minuziosa della tradizione manoscritta dell’Ibis da lui compiuta sono stati sostanzialmente recepiti in toto dai filologi successivi.

Nonostante il rimarchevole successo scientifico del suo lavoro giovanile sull’Ibis, La Penna – in un aforisma pubblicato 48 anni dopo – ne parlava quasi con rammarico: «da giovane dedicai due o tre anni a collazionare codici, edizioni, commenti, manoscritti o stampati, dell’Ibis di Ovidio, un poemetto di nessun valore letterario: credo di averne collazionati più di cento. Meglio avrei fatto a leggere un po’ più di quelle grandi opere che prendono, arricchiscono, esaltano l’anima». Su questo giudizio esageratamente svalutativo hanno forse pesato un tedio momentaneo per la fatica a volte improba della ricerca erudita e il poco amore per Ovidio, che La Penna considerò sempre un poeta frivolo, privo di apertura ai moti umani più profondi. Ma io riconosco in questo aforisma anche una sofisticata allusione ad Housman, che, come La Penna, tante energie aveva dedicato all’Ibis. Scriveva appunto Housman, in un ricordo del coltissimo e dotatissimo amico Arthur Platt, il quale amava leggere solipsisticamente i grandi autori piuttosto che dedicarsi alla stesura di lavori eruditi, che «lo studioso che intende costruire a se stesso un monumento deve trascorrere gran parte della propria vita a leggere libri che in se stessi non meritano di essere letti». Questo è il prezzo che i grandi dotti pagano alla propria ambizione, ed è incauto trascurare con leggerezza i risultati da loro ottenuti. Proprio questo è il difetto più grave di una recentissima edizione italiana dell’Ibis, che senza alcuna pretesa di originalità filologica si pone il rispettabile obiettivo di attrarre nuovi lettori al poemetto ovidiano (Publio Ovidio Nasone, Ibis, introduzione, traduzione e note di Maria Clelia Cardona, Edizioni Medusa, pp. 127, euro 16,50).

La Cardona non cita Housman nemmeno in bibliografia, e pur conoscendo l’edizione commentata di La Penna di fatto la ignora. Limitando lo sguardo ai primi quattro versi, se la Cardona avesse utilizzato l’edizione di Housman avrebbe visto che al v. 4 dopo Nasonis è indispensabile una virgola; e se avesse compulsato il commentario di La Penna avrebbe compreso che i vv. 3-4 non significano «non c’è lettera alcuna di Nasone, fra le tante migliaia da lui scritte, che a chi la legga insanguinata appaia», bensì «non si può leggere alcuno scritto di Nasone, benché egli abbia composto migliaia di versi, che sia bagnato nel sangue delle ferite arrecate». Intellegenti pauca.