Due cinquantenari in questi giorni. Coinvolgenti. La nascita del manifesto, la morte di Igor Stravinsky. Aprile 1971 per entrambi. Se sono intimamente connessi è da indagare. Il quotidiano si colloca nel campo dell’innovazione, del desiderio di emanciparsi dai conservatorismi, su questo non ci sono dubbi nonostante le diverse tonalità toccate nel corso del tempo. Per il filone sovversivo, se non insurrezionalista, che pure ha avuto voce tra i movimenti attorno al ’68, il giornale non è abbastanza radicale oggi e non lo è mai stato. Ma il suo campo è chiaro. Il compositore russo-francese-statunitense (cittadino del mondo con legami musicali a certe tinte popolari russe mai abbandonate del tutto), riconosciuto immenso al di là delle sue ondulazioni stilistiche, si può mettere dalla stessa parte della barricata, con l’avvertenza che le barricate esistono sempre, anche nella società «liquida»? E con la seconda avvertenza: la musica è pensiero, nella musica corrono e confliggono le idee (dentro i suoni non altrove), quindi la questione delle barricate si pone legittimamente?

PARERI CONTRASTANTI
La risposta è affermativa. Non certo unanime, almeno durante gli anni della lunga carriera del compositore. Negli ultimi e penultimi tempi la risposta si è forse avvicinata largamente tra musicologi e osservatori al «sì» che qui si propone. Stravinsky nella sua vita ha trovato parecchi pareri diversi e anche opposti sulla sua strada. A cominciare dai suoi stessi pareri: «Han fatto di me un rivoluzionario mio malgrado», scrive in Poetica della musica, uno dei due libri di memorie e riflessioni a sua firma (l’altro è Cronache della mia vita, altri volumi di questo tipo sono stati elaborati insieme a Robert Craft, segretario e collaboratore per più di vent’anni). Il problema lo interessava a modo suo. Nei termini dell’affermazione di una poetica. Di eventuali connessioni alle visioni politiche più in senso stretto si sa, o si ipotizza, soltanto che era talmente antisovietico e anticomunista da rasentare, durante il soggiorno parigino negli anni Venti e Trenta, le deviazioni reazionarie.
Una cosa va detta subito. La concezione e la scrittura di un’opera come Le sacre du printemps dovrebbero bastare a battezzare come rivoluzionario qualunque compositore. Fosse anche stato autore di una sola opera, Stravinsky con il Sacre sarebbe entrato nella storia della musica nell’elenco dei rivoluzionari. Pierre Boulez non era d’accordo a suo tempo. Nel suo saggio del 1951 Stravinsky demeure scrive che quel lavoro era un terreno di sperimentazione del rinnovamento ritmico ma che il linguaggio dell’autore era ben lontano dall’«essere una liberazione dal punto di vista tonale». Insomma, la solita storia della critica della neoavanguardia di allora, durata però parecchio tempo: la vera innovazione, la vera propulsività erano quelle dei viennesi, Schönberg, Berg, Webern, che rompevano con l’ordine tonale e poi adottavano il metodo di comporre sulla base di serie di dodici suoni uguali tra loro.
Domanda: e allora Duke Ellington? Quello di Creole Love Call, quello del Cotton Club, e poi quello di tutta la sua vicenda musicale? E allora il jazz? Tradizionale, bop, cool (il free in tempi successivi si sarebbe misurato con l’atonalismo)? Le regole armoniche classiche, dal «temperamento» in poi, vi sembravano rispettate ma tutto all’ascolto suonava così nuovo. Come mai? In realtà il cammino della musica contemporanea ha smentito le osservazioni del Boulez di allora: tonalità sì o no, cantabilità (nel senso classico) sì o no non sono il problema. La questione, casomai, è la centralità tonale, la costruzione di itinerari sonori anche complessi nei quali comunque «si torna a casa», si deve «tornare a casa». Ma nel Sacre questa idea non c’è, in ogni caso non si impone all’ascolto. Lì è tutta la materia sonora che deflagra, i timbri e i modi di disporre le dissonanze, che non sono una novità in sé, vengono stimolati a una «pronuncia» dell’orchestra che è incredibilmente innovativa, fuori norma, che ci lascia inebriati ma sensibili al desiderio di cambiare il mondo. Come con Ellington, come col jazz. Proprio Boulez nel corso della sua carriera «parallela» di direttore d’orchestra è diventato il miglior interprete in assoluto del Sacre. Perché non toglie niente di tellurico e lussureggiante all’opera ma ne toglie l’esotismo, ammesso che ce ne sia traccia, e accentua un tratto tipicamente stravinskiano, vale a dire la meccanicità, l’asciutta a volte dura scansione urbana, il sapore urbano, ultra-modernista, altro che «quadri della Russia pagana» (che pure appaiono nel sottotitolo).

ANOMALIA
Nel periodo appena successivo al Sacre, siamo nel 1914, sono interessantissimi i Tre pezzi per quartetto d’archi. Grande la maestria della scrittura, grande l’anomalia rispetto alla successione delle opzioni stilistiche di Stravinsky, evidentemente non così regolare e ben suddivisa temporalmente come si è spesso detto. E anche rispetto alla collocazione del compositore in una ipotetica (ma attraente) «battaglia delle idee». In una delle conversazioni con Robert Craft (v. Colloqui con Stravinsky, Einaudi, 1977) il compositore nega che esista nei Tre pezzi una affinità con le musiche di Schönberg e di Webern, «…molto diversi nello spirito», dice. In effetti è vero. Il secondo pezzo ha una incisiva rilevanza ritmica, non «selvaggia» ma quasi analitica, sia pure mantenendo la verve da giocatore che non è mai mancata a Stravinsky. Il terzo pezzo è tutta una riflessione di unisoni tenui e anche stridenti e l’atmosfera espressionista è innegabile. Vienna non c’entra, ma c’entra di sicuro una attiguità fortissima con le avanguardie europee. Però Stravinsky vi scorge un annuncio del suo periodo neoclassico (il cui inizio viene datato 1920). Nel colloquio, avvenuto intorno al 1960, fa del sarcasmo definendo «aberrante» quel periodo, ed è chiara l’allusione a giudizi critici non suoi. Smentire un autore si può: i Tre pezzi stanno a sé, pochissime le analogie col periodo neoclassico, casomai si potrebbe azzardare l’ipotesi di una anticipazione del periodo seriale, avviato intorno al 1951, ma solo nello spirito, non nella tecnica. Quel che spicca all’ascolto è che si tratta di un maestro dell’innovazione, un maestro di singolarità trasformatrice.
Torniamo al Boulez saggista alle prese col suo più anziano collega. Senza scampo la condanna del periodo neoclassico. «Come spiegare questo esaurimento accelerato che si manifesta in tutti i settori: armonico, melodico… e anche ritmico», scrive in Stravinsky demeure. Eppure dirigerà Pulcinella da par suo, quella rivisitazione delle musiche di Pergolesi che effettivamente, specie nelle iniziali Ouverture e Serenata, peraltro deliziose, sembra proprio baloccarsi con la nostalgia di un passato rassicurante. Ma si ascolti l’Ottetto per strumenti a fiato (1923) oppure il Concerto per pianoforte e orchestra di strumenti a fiato (1924). I riferimenti all’epoca barocca ci sono, voluti ed evidenti, ma l’idioma è tutto ultra-moderno, con serrate, ipermeccaniche sequenze ritmiche nel Concerto e nell’Ottetto una sensazionale miscela di nuovo barocco e avventuroso gusto jazzistico, quello che avrà una celebrazione meravigliosa nell’Ebony Concerto (1945) pensato per l’orchestra di Woody Herman e strabordante spirito di ricerca, di desiderio, di piacere della profondità timbrica, come nel Sacre.
Non è chiaro se per i critici avversi del campo avantgarde c’è riscatto o no quando Stravinsky abbandona la «nuova oggettività» – questa era la scelta teorica che presiedeva le non sterili produzioni neoclassiche, quindi una sintonia con movimenti artistici moderni – e adotta la tecnica della composizione seriale. Probabilmente – è un’ipotesi da seguire – continua a frequentare lo spirito della «nuova oggettività» anche lasciando per sempre gli amori barocchi. Scopre Webern. Ne parla quasi con devozione. I Movimenti per piano e orchestra (1958-’59) sono nelle parti del pianoforte una radicalizzazione del radicalissimo Webern e nelle parti dell’orchestra uniscono sensuosità ed essenzialità estrema. Il tocco dello Stravinsky rivoluzionario.