Un occhio attento, non necessariamente tecnico-clinico o avvezzo alla semiotica visuale, durante l’ultimo Festival di Sanremo avrebbe potuto cogliere, sulla parte bassa dello schermo, i passaggi di alcune strisce pubblicitarie dall’aria esotica, dall’apparenza colorata, ma soprattutto capaci di superare sottotraccia le più resistenti barriere cultural-immunitarie, presentandosi nella forma dell’ingenuità o, peggio, dell’innocuo.

Elementi sottoculturali, si dirà, ma che per arcano automatismo emergono improvvisi in un luogo in un passato non troppo remoto di produzione – il casinò di Sanremo, il più antico in Italia, venne aperto il 12 gennaio 1905 – e oggi di crisi materiale e simbolica delll’immaginario dell’azzardo. Non fosse altro che per il luogo in cui questi microeventi si sono prodotti, meriterebbero o avrebbero meritato qualche cosiderazione.

Patologia della legge

Quel banner – si dirà ancora – altro non faceva che pubblicizzare comuni caramelle alla frutta, mostrandole avvolte da strisce di colori arcobaleno. Piacciono ai grandi, piacciono ai bambini, piacciono a tutti: questo è il problema. Non è certo la linearità del legittimo scopo promozionale a doverci preoccupare, casomai è l’orizzonte implicitamente delineato e il portato complesso che storicamente e collateralmente quella «linearità» veicola e di cui poco sappiamo o – peggio – vogliamo sapere. Parliamo di «ludopatie», «azzardo», con un’accetta tagliamo il «normale» e lo dividiamo dal «patologico», ma poi, della concrezione storico-concettuale di termini come «azzardo», «gioco», «addiction» e persino quando si tratta di decostruire un’immagine che attinge a piene mani dall’immaginario un tempo automatico e oggi digitale, per non delle inevitabili ricadute che tutto questo ha sulle nostre vite, poco diciamo e poco sappiamo. Dividiamo il legale dall’illegale, valorizziamo il primo, manifestiamo contro il secondo, salvo poi scoprire che la legalità nell’azzardo è una gabbia di ferro che porta alle aziende del settore – dati dell’Economist, relativi alla perdita annua degli italiani – 17 miliardi di euro, per un giro di affari complessivo di 89 miliardi e con un introito per le casse dell’Erario del Belpaese di 13 miliardi di euro per il 2013, di cui 4 da slot machine e apparecchi simili. Persino l’Istat, nel suo ultimo rapporto «Noi, Italia» mette l’azzardo tra i consumi ricreativi e culturali delle famiglie, al pari di spese per istruzione, libri e via discorrendo. Qualcosa non va nel principio, non solo nella coda del processo. E quel piccolo banner sta lì a indicarcelo.

L’uomo, scriveva nel 1964 il sociologo e teologo francese Jacques Ellul, è sempre più ridotto al ruolo di catalizzatore di profitti e imposte. Anche la tecnologia, piegata a un orizzonte interamente compreso nella sfera della gamification sembra non dargli scampo (persino il lavoro è ridotto a un azzardo, tra sistemi di valutazione, selezione, assegnazione, retribuzione trasformati in «gioco» o, peggio, a una variabile aleatoria). Tra le pagine più dense del suo La téchinque ou l’enjeu du siècle, oggi tornato d’attualità anche grazie alla recente pubblicazione dell’inedito proseguo Théologie et technique. Pour une éthique de la non-puissance (Labor et Fides, 2014), Ellul ricordava che in questo contesto l’uomo assomiglia sempre più «a un falso gettone inserito in una slot machine. Inizia l’operazione senza prendervi parte».

La dolce droga del gambling

Un rullo, simile a quello di una slot machine, appariva nel sottoschermo mentre i due presentatori del Festival della Canzone Italiana parlavano di «bellezza» citando Dostevskij. Avessero prestato – e noi con loro – più attenzione alle parole dello stesso Dostoevskij e del suo Grande Inquisitore avrebbero – e avremmo – forse colto qualcosa di quella eco sinistra che risuona oramai persino nella parola «gioco», un tempo docile e familiare. Li faremo lavorare – si legge nelle note pagine dei Fratelli Karamazov – «ma nelle ore libere dalla fatica organizzeremo la loro vita come un gioco, asservendola con canzonette». Togli il lavoro e che cosa resta? Restano – ecco la gamification – solo gioco e canzonette parimenti puerili.

Parole che potrebbero oramai inscriversi in una vision delle aziende di settore che – si pensi al caso di Lottomatica, controllata interamente dal gruppo editoriale De Agostini – oramai estendono il proprio business sui settori congiunti dell’educazione, del welfare, della riscossione dei tributi, dell’arte, della «ricreazione» tout court e, ovviamente, del gambling variamente graduato, dalla sua variante leggera (lotterie) a quella delle slot machine, definite dai tecnici come l’equivalente del crack nel mondo dell’azzardo.

Sia come sia, torniamo al nostro caso. In altre campagne promozionali, la stessa azienda, nota produttrice di caramelle, si era resa ancora più esplicita nel suo riferimento alle macchinette mangiasoldi (tragamonedas: così le etichettano in America latina), giocando su un fatto: ciò che in Italia generalmente chiamiamo slot machine, nei paesi di lingua inglese è conosciuto anche con il nome di fruit-machine. Oggi, chiunque provasse anche solo a guardare il rullo di una slot machine, a parte strani simboli che sembrano rimandare a un immaginario regal-massonico fatto di arcani corrotti – sfingi, corone imperiali, piramidi – in prevalenza troverebbe proprio frutta esotica e multicolore.

Il golden state

Le carte da poker applicate alle slot sono oramai residuali e in Italia addirittura cadute fuori legge, ancor prima che in disuso, quando nel 2003, con una norma passata anch’essa sottotraccia, modificando il Testo Unico della Leggi di Pubblica Sicurezza che resisteva dal 1931 e poneva un argine alla diffusione dell’azzardo fuori dai casinò, si introdussero la nozione giuridicamente abnorme di «gioco lecito» per sottrarre il sistema del gaming machine al divieto in cui incorre il gioco d’azzardo, divieto tuttora vigente nel Codice penale, art. 710. Al tempo stesso, si autorizzarono gli apparecchi con vincita in denaro (ovvero le slot machine) attti a quel «gioco» e, contestualmente, si stabilì che nessuno di questi apparecchi o congegni elettronici installati in locali o luoghi pubblici potesse riprodurre in tutto o in parte i poker.

Solo una vulgata giornalistica poco informata e fuorviante ha considerato e considera tuttora presenti in forma lecita in Italia i cosiddetti «videopoker». Eppure, anche il passaggio dalle carte alla frutta qualcosa ci dice. Che cosa? Andiamo con ordine.

I luoghi hanno una loro importanza in questa storia. Le prime slot machine vennero installate nei bar e nelle drogherie di San Francisco dopo la fine della corsa all’oro. La nascita dello Stato della California, il cosiddetto Golden State, parte degli Stati Uniti dal 1850, va di pari passo con la storia dell’azzardo. Al momento della sua costituzione, infatti, lo Stato della California aveva una popolazione quasi interamente composta da giocatori d’azzardo, in particolare da poker, dadi e macchine da poker, antenate del moderno videopoker. Si calcola che nel 1890, nella sola San Francisco, esistevanno circa 3200 locali con licenza per la vendita di alcoolici. Accanto agli alcolici, c’era l’immancabile macchinetta che funzionava a penny. Come ricorda l’antropologa del Mit Natasha Dow Schull, in un libro importante sull’argomento, Addiction by design (Princeton University Press, 2012), fu un immigrato bavarese, Charles August Fey, a rivolzionare questo mondo, quando nel 1898 rese possibili i pagamenti automatici montando le carte da gioco su tre rulli, riducendo quindi la gamma di combinazioni vincenti a un numero gestibile per il meccanismo di pagamento.

Nel 1898, Fey rimpiazzò le facce delle carte con simboli, introducendo la sua famosa Liberty Bell, il prototipo della moderna slot machine a bobine rotanti. Il gioco presentava tre bobine caricate a molla, ciascuna con cinque simboli – ferro di cavallo, campana, cuore, spada e diamante. Tanto popolari, quando odiate le slot machine di Fey divennero oggetto della crociata dei movimenti di temperanza contro il vizio. Nei primi anni del XX secolo, militanti dei movimenti per la temperanza, armati di martelli, si presentavano nei locali per demolire le Liberty Bell e le loro varianti che, nel frattempo, si andavano diffondendo.

Un rullo alla frutta

Iniziò allora il complesso e intricato rapporto tra proibizione e azzardo legato alle macchine, ma sempre allora iniziò anche il complesso rapporto tra divieti e aggiramenti. La tecnologia non conosceva ostacoli in questo campo – oggi possiamo ben dirlo – e anche dove erano stati messe fuori legge, le slot machine venivano «travestite» da distributori automatici di gomme, mostrando i simboli della frutta sui rulli: ciliegie, limoni, arance, banane, more. Il trucco – lo stesso usato in Italia per introdurre i videopoker nella metà degli anni Novanta del secolo scorso, aggirando i divieti – consisteva nel dare premi in «buoni consumazione» o in buoni-frutta che potevano essere, e ovviamente venivano convertiti in contante.

Nasce da qui la dizione di fruit machine, uno dei termini più popolari con cui, nei paesi di lingua inglese, si chiamano le «macchinette». Nasce sempre da qui l’onnipresenza di frutta colorata sui rulli delle slot. Il sotterfugio della frutta permise alle macchinette – ricorda Natasha Schull – di nascondersi alla vista dei grandi critici della nascente società di massa e superare la loro crisi, attendendo una crisi più grande e di sistema, condizione ideale in cui da che mondo e mondo rifiorisce quella fattispecie della speculazione e dell’usura sull’anime morte – tanto per citare Gogol, oggi ripreso anche dai critici più liberali del gambling, come Sandel – che è l’azzardo di massa.

E l’occasione arrivò per le fruit machine con la grande Depressione degli anni Trenta quanto gli introiti delle slot, con l’«ingenua e innocua» frutta sui rulli divennero il principale mezzo di sopravvivenza per le stazioni di servizio, i negozi di alimentari e tutti i piccoli esercizi commerciali, portando ancora più alla rovina le famiglie dei disoccupati che, da parte loro, fecero salire alle stelle i profitti dell’industria del gambling che, in quegli anni, nel cuore nero della crisi, New York, vedeva tra i propri imprenditori gente dello spessore etico di Frank Costello e Phillip Dandy Kastel e di altri esponenti delle families dedite oramai al traffico delle one armed bandit (bandito da un braccio solo, altra definzione gergale per le slot machine).

Macchine da distruggere

Le slot machine arrivavano tramite la loro società, la Mills Novelty Company, che le installava in qualsiasi luogo di incontro o passaggio, dai ristoranti alle fermate dei bus, mascherando il tutto dietro il solito espediente della frutta. Tra le venticinque e le trentamila slot machine costituivano il parco macchine di Costello. L’era delle slot machine a New York venne chiusa nel 1934 da Fiorello La Guardia, in quella che rimande una delle iconografie più potenti dell’immaginario anti-azzardo. Alla frutta, La Guardia contrappose non parole o ghignetti, ma una materialissima mazza: video e immagini lo ritraggono mentre distrugge le fruit machine, con un gesto apparentemente rozzo e spettacolare, ma evidentemente efficace se ha retto per settant’anni nell’immaginario,

A chi gli suggeriva che meglio sarebbe stato far emergere il sommerso, tassandolo, La Guardia di cui tutto si può dire fuorché fosse un talebano della «temperanza», rispondeva che «certe cose sono fuori legge perché ingiuste, non semplicemente ingiuste perché fuori legge». In fondo, per altri, Costello era solo un imprenditore particolarmente «smart» dotato di «visione» e le sue slot machine solo innocui distributori di caramelle alla frutta.