Valery Bisharat conduce la vita di una giovane newyorkese simile a quella di molti dei suoi coetanei. «Sono le mie radici la diversità dagli altri giovani Usa» racconta «la mia famiglia è di origine palestinese, di Gerusalemme, e penso di avere dentro di me la storia di quella terra». Per questo nel 2016, Valery, aveva da poco conseguito la maturità scolastica, decise di partire per «quella terra» di cui aveva sentito parlare tanto dal nonno. A spingerla fu anche il padre, George, musicista e commentatore politico sul Medio Oriente. «Desideravo andare alla villa costruita dal mio bisnonno, Hanna Bisharat, una costruzione magnifica, la chiamano Villa Harun ar Rashid, che avevo potuto ammirare solo nelle foto. È stata confiscata alla mia famiglia dalle autorità israeliane dopo il 1948 ed ero curiosa di incontrare chi ci viveva». Giunta a Gerusalemme Valery troverà nella villa del bisnonno, in via Markus, nel quartiere residenziale di Talbiye, Giselle Arazi, una ebrea novantaseienne. A raccontare l’incontro fu la regista Sahera Dirbas nel documentario “Sulla soglia di casa”. La storia non finì bene. Dopo i primi cordiali colloqui, l’anziana a un certo decise di non ricevere più quella giovane palestinese che faceva tante domande e aveva voluto vedere da vicino la villa presa al nonno dalle autorità israeliane. Il film si conclude con Valery che scrive una lettera a Giselle in cui descrive la sua delusione per averla tenuta fuori, sull’uscio di casa.

Furono migliaia le proprietà confiscate ai palestinesi che vivevano nella zona Ovest di Gerusalemme, la parte ebraica della città. La villa del bisnonno di Valery però è sempre stata speciale, in ragione della sua bellezza e maestosità. Un gioiello di pietra con un bel giardino che Hanna Bisharat pur essendo un cristiano volle dedicare al califfo abbaside Harun ar Rashid, una delle figure più celebri della storia islamica. Il suo valore è calcolato in milioni di dollari. Vi hanno vissuto importanti funzionari israeliani e anche Golda Meir, la donna premier di Israele famosa nel mondo. «La mia famiglia ha provato più volte a recuperare la villa ma non c’è stato nulla da fare, la legge israeliana non permette ai proprietari palestinesi (di case e terreni confiscati dallo Stato) di riottenere ciò che gli apparteneva» spiega Valery che fa fatica a controllare le emozioni ricordando la breve ma intensa visita alla Harun ar Rashid. «È stato come aver vissuto tutto in un colpo le storie e i ricordi della mia famiglia, una sensazione unica».

L’occupazione e l’assegnazione in prevalenza ad immigrati ebrei delle proprietà palestinesi confiscate nella zona Ovest di Gerusalemme – sotto il controllo Israele al momento del cessate il fuoco il 17 luglio 1948 (il regno di Transgiordania aveva le mani sulla parte Est) – sono state tra i primi provvedimenti presi dalle autorità del neonato Stato di Israele. Una cintura di terra di nessuno correva a sud di Sheikh Jarrah, lungo il lato Ovest delle mura della città vecchia e la via Hebron, fino a Ramat Rahel. Il mediatore delle Nazioni Unite Folke Bernadotte si impegnò per permettere agli sfollati palestinesi di tornare alle loro case senza restrizioni e in possesso delle loro proprietà. Una soluzione fortemente avversata dai leader israeliani che in quei giorni pianificavano l’annessione di Gerusalemme Ovest. Ma ebbero il tempo di varare quelle direttive per confiscare le case, i terreni e le attività commerciali palestinesi che furono poi codificate nella Legge sulla proprietà degli assenti, del 1950. Per questa legge un «assente» è una persona che in qualsiasi momento tra il 29 novembre 1947 e il giorno in cui lo stato di emergenza dichiarato nel 1948 sarebbe cessato di esistere, era diventato cittadino di un paese arabo, aveva visitato un paese arabo o lasciato la Palestina prima del 1° settembre 1948. In pratica riguardava tutti i profughi palestinesi e buona parte degli sfollati interni, inclusi coloro che a causa della guerra erano scappati temporaneamente da Gerusalemme Ovest. Il comitato per gli alloggi cominciò subito ad insediare immigrati e sfollati ebrei nelle case palestinesi a Qatamon, la Colonia tedesca, Baqaa, Musrara, Abu Tor e Talbiya. Lo storico Salim Tamari ricorda che i nuovi immigrati ebrei erano più che disposti a trasferirsi nelle spaziose case palestinesi. «Tanto che – aggiunge – quando ad alcuni di loro fu detto che sarebbero stati alloggiati nell’ebraica Neve Sha’anan si rifiutarono di trasferirsi lì dicendo che preferivano vivere nelle ville di Qatamon a Gerusalemme».  Case e ville spesso meravigliose. Ancora oggi gli agenti immobiliari israeliani a Gerusalemme non mancano di far notare ai potenziali acquirenti che quella è una casa «araba», quindi bella e spaziosa.

Sahera Dirbas, girando il primo dei suoi documentari («Estranea a casa mia») sulle case palestinesi a Gerusalemme Ovest assegnate a cittadini israeliani, accompagnò nel 2006 alcuni dei proprietari alle abitazioni. «Ripresi con la telecamera gli incontri tra i palestinesi e gli israeliani che vivono nelle case confiscate – racconta – e ricordo bene il disorientamento, unito a frustrazione e dolore, dei palestinesi che ripetevano di avere diritti su quelle abitazioni, contro la calma degli israeliani che si mostravano cordiali, sorridenti e, più di tutto, molto tranquilli: sapevano che la legge non avrebbe mai permesso ai quei visitatori di riprendere possesso delle case, nonostante avessero i documenti che attestavano la proprietà degli stabili prima del 1948».

Yacoub Abu Arafeh, di Sheikh Jarrah, il quartiere di Gerusalemme Est dove una società immobiliare legata alla destra israeliana reclama le proprietà possedute da famiglie ebree prima del 1948 –  28 famiglie palestinesi rischiano di essere cacciate via dalle loro case – commenta laconicamente: «Se gli israeliani vogliono le loro proprietà qui a Sheikh Jarrah allora ci ridiano le nostre a Gerusalemme Ovest, a Giaffa, Haifa, ovunque».