Immaginate una città elettrizzante come New York e pulita come Tokyo». La promessa che campeggia sul sito di Telosa (https://cityoftelosa.com/) è allettante e così le altre affermazioni che riguardano la avveniristica città, modello di «un futuro più equo e sostenibile».

LA CITTÀ-UTOPIA DOVREBBE sorgere nel deserto americano e crescere fino ad una popolazione di 5 milioni di abitanti su una superfice di 800 km2. Al centro della nuova città che dovrebbe rivoluzionare la convivenza urbana, «espandere il potenziale umano e diventare archetipo per future generazioni» (sempre parole del sito), si ergeranno una serie di futuristiche torri con «rivestimenti fotovoltaici, cisterne elevate e coltivazioni aeroponiche» per la produzione alimentare autosufficiente. Nei disegni i cieli sono solcati da aerotaxi autonomi volanti, mentre più vicine al suolo monorotaie formano una efficiente rete di trasporto pubblico. Riscaldamento ed energia saranno 100% rinnovabili e la città risparmierà il 90% dell’acqua , puntando ad azzerare rifiuti ed emissioni. Ogni cittadino usufruirà di 50 m2 di spazio.

IL PROGETTO E’ A DIR POCO AMBIZIOSO e le illustrazioni rimandano ad un ibrido di Disney World e un campus aziendale di Silicon Valley. Non a caso, dato che la mente dietro a Telosa (dal télos aristotelico, il sommo obiettivo da raggiungere, il senso dell’esistenza umana) è Marc Lore, imprenditore che ha fatto fortuna vendendo pannolini online ed oggi è uno degli stimati 75 miliardari tech. L’edificazione della città in una località ancora da definire nei grandi spazi vuoti del sudovest americano, costerà 400 miliardi di dollari e usufruirà delle ultime tecnologie in materia di energia, trasporti ed architettura (per il progetto è stata ingaggiato lo studio danese Bjarke Ingels Group). Ma scorrendo il progetto si capisce che ciò che interessa davvero Lore, ancor più del laboratorio tecnologico, è l’esperimento socio-economico. Nel manifesto si legge che Telosa oltre che sostenibile sarà inclusiva verso ogni cittadino cui offrirà uguale opportunità di «condividere prosperità».

LORE CONSIDERA IL CAPITALISMO un impareggiabile motore di benessere ma ammette che sussiste un problema di disuguaglianza. La soluzione non sta nell’intervento statale, sostiene, ma nell’accumulo «virtuoso» della ricchezza, una filosofia che ha battezzato equitismo (dalla fusione di equity e capitalismo). In inglese equity significa sia equità che patrimonio ed è questa seconda accezione che Lore basa in parte sulle idee di Henry George un economista che a fine ottocento fu autore di teorie proto liberiste sul valore del lavoro e della proprietà immobile.

IL VALORE DELLA TERRA E’ PARTE fondamentale di Telosa che Lore immagina costruita su terreno remoto ed arido di valore quasi nullo ma destinato ad aumentare immensamente grazie al valore aggiunto della città che vi verrà costruita. Lore immagina una distribuzione di questo valore sotto forma di servizi gratuiti ai cittadini con un modello ricalcato sul modo in cui le startup digitali distribuiscono stock option ai propri dipendenti. Al centro del modello rimane insomma la «costruzione del benessere» tramite le forze di mercato: nel deserto dovrebbe sorgere un’utopia felice di cittadini-azionisti della propria città e soprattutto lontani dalla «oppressione» fiscale dello stato.

TELOSA NON E’ L’UNICA UTOPIA improntata al tipo di anarco-capitalismo in voga fra gli oligarchi del digitale. Progettare città sta diventando un hobby secondo solo a sparare razzi privati in orbita terrestre. Jeffrey Berns ad esempio, fondatore di Blockchains, azienda specializzata nei sistemi crittografici impiegati dalle cripto valute, ha proposto una città destinata a portare il nome della sua azienda (https://www.bbc.com/news/world-us-canada-56409924) ed è giunto ad acquistare 270 km2 di terreno nel Nevada nord occidentale. Prima che il progetto venisse abbandonato un paio di mesi fa, Berns aveva proposto che la nuova città di 36.000 abitanti fosse governata autonomamente dalle giurisdizioni dello stato ed era in procinto di ricevere un permesso speciale in questo senso dal governatore. «Credo che lo stato abbia troppo ficcato il naso nei nostri affari – aveva dichiarato alla Bbc – sto cercando di creare un luogo dove non possa interferire».

LA CITTA’ DI BERNS AVREBBE AVUTO un’infrastruttura centrale di gestione dati basata sulla tecnologia blockchain, le immancabili macchine volanti e sistemi «sostenibili» per l’approvvigionamento energetico (Berns aveva anche acquistato i diritti di usufrutto di due vicine falde acquifere). Ma soprattutto avrebbe avuto una sorta di sovranità politica speciale con facoltà di promulgare leggi ed ordinamenti propri. Quella dell’autogoverno con una patina ambientalista non è nuova, è stata l’ambizione alla base di numerosi progetti di insediamenti offshore, città galleggianti in acque internazionali (il cosiddetto seasteading https://www.seasteading.org/) per eludere leggi e regolamenti (e soprattutto tasse) delle nazioni su terraferma.

L’ASPIRAZIONE ALLA SOVRANITA’ è sempre più marcata nei colossi di Big Tech, aziende con la vocazione ad agire da entità sovrane e sovranazionali. Molto è stato scritto per esempio su come Facebook agisca già per molti versi da nazione autonoma e indipendente dagli ordinamenti nazionali che stentano ad imporre norme su contenuti pratiche dai pur comprovati e perniciosi effetti sulla democrazia. Apple dispone di riserve offshore superiori ai Pil di molti paesi, Google impone regole proprie su privacy, gestione dati e diffusione dell’informazione.

A SILICON VALLEY SI CONCENTRA un potere monopolistico enorme, superiore a quello di ogni precedente incarnazione industriale e le città autonome sarebbero una rappresentazione «politica» del controllo che già di fatto esercitano su settori della vita pubblica e privata.

IN ARIZIONA ANCHE BILL GATES ha acquistato100 km2 in due contee per la costruzione di una smart city (https://www.globest.com/2020/03/05/an-update-on-bill-gates-new-smart-city-in-arizona/) costruita attorno all’immancabile futuribile rete infrastrutturale di dati/trasporti/reti digitali e un «hub» tecnologico all’avanguardia. Si profila insomma una ricetta che comincia a suonare assai ripetitiva – un tipo di «utopia» che non casualmente attrae anche l’interesse di regimi totalitari.

TUTTO MOLTO RIGOROSAMENTE «SMART» e «clean» si intende, ma anche molto corporate ed esclusivo. C’è infatti un ulteriore elemento che accomuna molti di questi progetti. Già nel 2018 il futurologo Douglas Rushkoff, autore di Present Shock in un articolo intitolato Survival of the Richest (https://onezero.medium.com/survival-of-the-richest-9ef6cddd0cc1) descriveva come un gruppo di impresari tech l’avesse ingaggiato non per una conferenza ma per una consulenza privata sulle modalità migliori per sopravvivere al collasso prossimo venturo della civiltà. Il gruppo di miliardari voleva sapere dove vi sarebbero state le migliori condizioni climatiche, quali le strutture più resistenti e più affidabili sistemi per la produzione energetica ed alimentare, persino i sistemi più promettenti per assicurarsi la necessaria lealtà di mercenari armati.

NELL’ERA DEI GRANDI MECENATI PRIVATI del progresso tecnologico, dell’appalto privato delle missioni spaziali e di Elon Musk, si insinua anche una strategia privata per l’apocalisse che rammenta quella grottesca del magnate Peter Isherwell in Don’t Look Up, la satira apocalittica di Adam McKay. Sul New Yorker Evan Sonos ha documentato la diffusione del survivalism fra i manager di Silicon Valley (https://www.newyorker.com/magazine/2017/01/30/doomsday-prep-for-the-super-rich) molti dei quali hanno predisposto rifugi, scorte di viveri e stock di armi in preparazione per l’inevitabile tracollo dell’ordine sociale costituito.

AL DI LA’ DEGLI SCENARI DA «APOCALISSE zombie» in cui i ricchi si mettono in salvo grazie a soldi e tecnologia (e che tradiscono la vocazione videoludica dell’industria), in molta della sperimentazione tecno-sociale permane la sensazione che in quasi tutte queste utopie ci sia spazio soprattutto per facoltosi investitori. E una riverenza quasi mistica per la tecnologia come strumento di salvazione.

LO DIMOSTRA BENE UN GRUPPO denominato Praxis (https://www.praxissociety.com/content/introducing-praxis) finanziato in parte da star dell’high-tech del calibro di Marc Andreesen (Netscape) e Peter Thiel (Paypal). Sul proprio sito il gruppo si definisce una «community di creativi e tecnologhi costruttori della città del futuro». Gli adepti di Praxis dichiarano: «Intendiamo costruire i luoghi in cui potremo sviluppare al massimo il nostro potenziale fisico, culturale e spirituale. Accostano il Bitcoin all’opera dei padri fondatori degli Stati uniti, evocano il «destino manifesto» ritengono che nell’«era dell’informazione tutto viene rinnovato. Disponiamo di una radicale opportunità per reinventare le città – e la tecnologia per poterci riuscire».

SIAMO IN UNA SORTA DI CULTO FUTURISTA dove l’urbanesimo si fonde con l’architettura virtuale in stile 2nd Life o metaverso ed ogni umano problema trova una soluzione tecnologica. Si intuisce l’idea di trascendere l’umano, una corrente transumanista da sempre molto influente in ambito tech. Fanno invece difetto le considerazioni legate alla crisi terminale del lavoro e la sua natura sempre più alienata. Le città utopiche (https://newrepublic.com/article/164101/marc-lore-billionaire-telosa?utm_medium=notification&utm_source=pushly&utm_campaign=pushly_launch) si materializzano come biosfere su Marte, con grande attenzione ai sistemi tecnologici e molto poca agli abitanti, ridotti a poco più che sagome nei rendering in 3D o nei modelli architettonici. In questa infatuazione con dati, intelligenza artificiale, codici da Matrix – e capitale – sembra mancare la dimensione sociale, e umana, della coesistenza urbana.

IN ASSENZA DI UNA NECESSARIA conversione sulla sostenibilità dei consumi, la tutela delle risorse collettive e la democratizzazione della tecnologia, le città-utopia finiscono per esprimere un feticcio tecnologico al solito legato al mercato. E veicolano la cessione di parti sempre più consistenti di controllo ai signori di Big Data: la privatizzazione del futuro. Rappresentano in definitiva un’espressione della gilded age della tecnologia che non prende atto dei limiti della tecnologia «pura», pur in un momento crepuscolare, in cui ce ne sarebbe abbondante motivo.