Segno e simbolo inequivocabile di un passato che si vorrebbe trascorso per sempre e che invece potrebbe conoscere anche un nuovo futuro, il corpo aristocratico, e con esso gli ordini di ceto, di istituzione e di governo, nonché il nobilato che si accompagna a essi, designano, circoscrivono e perimetrano l’idea di una società intesa come immobile o comunque caratterizzata dalla permanenza e dalla continuità.
In origine, se era aristocratico il «comando del migliore», dove poche persone governavano per proprie presunte qualità un’intera comunità, senza essere sottoposte al vaglio critico delle loro decisioni, il nobile, considerato tale per nascita o investitura di titoli da parte del monarca, apparteneva a un ceto sociale reputato «naturalmente» superiore poiché dotato di caratteristiche altrimenti assenti nel resto della popolazione.

ARISTOCRAZIE E NOBILTÀ (i due termini sono spesso sinonimi intercambiabili) hanno costituito storicamente l’ossatura materiale del potere delle monarchie, prima assolute poi costituzionali, garantendole sia il controllo delle periferie territoriali che la continuità degli apparati sovrani. Esse stesse, insieme all’investitura divina e poi costituzionalistica del monarca, fondavano e rigeneravano – per il fatto stesso di esistere – l’elemento di legittimazione delle articolazioni politiche ed istituzionali nell’età dei regni. Alla nobiltà si è spesso accompagnato il tratto dell’irresponsabilità politica: la condizione medesima di essere appellati come intrinsecamente superiori, vuoi per ereditarietà (il «diritto di sangue»), politiche matrimoniali o investitura diretta, ne decretava l’insindacabilità dei privilegi da parte della società subalterna.

L’ACCOSTAMENTO tra la sacralità del corpo (individuale, quello del re, e collettivo, ossia il ceto patrizio) e la sua «ovvia» naturalità, che ne avrebbe connotato sia la materiale costituzione che la simbolica superiorità d’animo, è sempre stato indice di un sistema basato sulla trasmissione e sulla cooptazione. Qualcosa che dall’età rivoluzionaria borghese, prefigurandone le prime manifestazioni al XVII secolo, si è progressivamente sgretolato, fino a estinguersi. Ciò che oggi rimane, come lontana vestigia, è quanto il corpo diplomatico ha trattenuto nel suo cerimoniale, nei ritualismi e nelle liturgie laiche di cui continua a essere depositario.
Maria Malatesta, già docente di storia contemporanea all’ateneo di Bologna, con il suo volume Storia di un’élite. La nobiltà italiana dal Risorgimento agli anni Sessanta (Einaudi, pp. 336, euro 26) si interroga, con un’ampia visuale di merito, sulla presenza e sulla consunzione di un’entità endogamica qual era (e in buona parte rimane, tra le pieghe della storia) l’aristocrazia presente sul territorio italiano.
L’arco di tempo è quello che va dai moti risorgimentali ottocenteschi al consolidamento repubblicano. Uno spaccato di storia nazionale che si intreccia con le dinamiche europee. Peraltro la presenza di un’élite di trasmissione è un fenomeno che va sempre inquadrato in un’ottica continentale. L’aristocrazia più recente, precedente al sopravvenire degli ordinamenti repubblicani, è infatti il prodotto degli assetti monarchici che si definirono a partire dal tardo Medioevo europeo. È a partire da quei processi che venne progressivamente determinandosi quell’idea di Stato che poi si sarebbe confermata nel tempo, per giungere fino a noi.
La nobiltà europea nasce e si rigenera dentro un’organizzazione istituzionale e politica dove la primazia di un luogo incarnato in una figura sovrana (il monarca, espressione di una dinastia familiare incardinata e identificata perlopiù con una precisa area urbana) è accompagnata dal ruolo di interconnessione con lo spazio circostante e i corpi sociali che lo abitano. La funzione del patriziato è di costituire questo trait d’union. L’ereditarietà è però la forca caudina dove si consuma la legittimazione aristocratica.

L’ESSENZA della Repubblica, infatti, è la non trasmissibilità delle cariche senza un processo elettivo al quale deve partecipare la comunità. La quale, a sua volta, è intesa come un’entità omogenea, di eguali poiché aventi i medesimi diritti dinanzi a una legge unitaria. Il volume di Malatesta affronta questo insieme di temi cogliendone gli aspetti non residuali. Alla riorganizzazione della politica e alla trasformazione delle istituzioni corrisponde una capacità di riadattamento dei casati e delle discendenze. Più che una frantumazione si assiste allora a una progressiva metamorfosi per adattamento.
Se alcune linee parentali si esauriscono altre, invece, trasformano il privilegio per nascita in valore competitivo, da utilizzare dentro le nuove reti di relazioni sociali che il cambiamento porta con sé. Mutano i titoli, si trasforma l’involucro del privilegio si rinegoziano i legami ma la violenta detronizzazione rimane destino dei soli monarchi. Le élite, in fondo, sono tali anche se sanno sopravvivere a se stesse.