Sono sempre più frequenti i casi in cui, al momento del ricovero di un malato non autosufficiente in una residenza sanitaria assistenziale (Rsa), ai parenti viene chiesto di impegnarsi a versare le rette relative alla degenza. Si tratta di un comportamento illegittimo e gli atti eventualmente sottoscritti risultano nulli e privi di ogni valore giuridico: lo ha ribadito una recente pronuncia del Tribunale ordinario di Foggia (sentenza n. 1153 del 2020), relativa al caso del Signor P.A., affetto da una gravissima forma di demenza senile, al cui figlio, in qualità di suo amministratore di sostegno, la Rsa e l’Asl avevano ingiunto di versare la somma di 5.000 euro corrispondenti al costo dei primi mesi di ricovero del padre.

La sentenza si basa sulla puntuale ricostruzione del quadro normativo, costituito dall’art. 3-septies del decreto legislativo n. 502 del 1992 sull’integrazione socio-sanitaria e dall’art. 3 del dPcm 14 febbraio 2001 in materia di prestazioni socio-sanitarie. In forza di tali disposizioni si deve distinguere tra: (a) prestazioni sanitarie a rilevanza sociale: di competenza e a carico delle Asl; (b) prestazioni sociali a rilevanza sanitaria: di competenza e a carico dei comuni, con compartecipazione della spesa da parte degli utenti; (c) prestazioni socio-sanitarie ad elevata integrazione sanitaria: di competenza e a carico delle Asl e ricomprese nei livelli essenziali di assistenza sanitaria (Lea).

È quest’ultima la categoria in cui rientra il caso degli anziani non autosufficienti per motivo di patologie cronico-degenerative che provocano grave demenza senile, come quella contratta dal Signor P.A. Si tratta di patologie che necessitano di un continuo e assiduo monitoraggio sanitario, tramite trattamento farmacologico prestato da personale specializzato, pena la messa a rischio delle condizioni di vita, e della stessa sopravvivenza, del paziente.

Quelle richieste dalla malattia sono, dunque, prestazioni a contenuto sanitario, non sociale, con la conseguenza, scrive il Tribunale, che, «se l’ammalato è ricoverato per patologie del genere sopra indicato con prevalente componente sanitaria, nulla è dovuto dall’utenza, in quanto non può dirsi sussistente alcuna componente sociale della retta».

Ad analoga conclusione – aggiunge la sentenza – già era giunta la Corte di Cassazione, stabilendo che tutte le volte in cui le prestazioni socio-assistenziali sono accompagnate da prestazioni sanitarie, l’attività svolta va considerata avente natura sanitaria e, pertanto, è di competenza e a carico delle strutture del Servizio sanitario nazionale (sentenza n. 2276 del 2016). Al contrario, nei casi in cui l’assistenza fornita ai pazienti risulta meramente sostitutiva delle cure familiari, allora è esclusa la sua riconducibilità all’ambito delle prestazioni fruibili gratuitamente (sentenza n. 19642 del 2014).

Le Regioni, a cui è in concreto affidata l’attuazione del diritto alla salute, ostacolano l’effettiva cura dei malati non autosufficienti in molti modi. Alcune la vincolano alla previa valutazione di condizioni (situazione economica, proprietà di un immobile, esistenza di congiunti, inserimento sociale) che nulla hanno a che vedere con la salute del malato (Piemonte); altre alla capienza del finanziamento stabilito nella manovra di bilancio, definita senza considerare tutte le effettive esigenze da prendere in carico (Veneto); altre ancora all’inserimento in liste d’attesa con tempistiche incompatibili rispetto alla gravità della malattia (Toscana); altre alla predeterminazione di una durata massima di erogazione delle prestazioni, a prescindere dalla guarigione del paziente (Umbria).

Il tentativo di scaricare sui familiari i costi delle prestazioni sanitarie è solo l’ennesimo escamotage con cui molte Regioni provano a svincolarsi dagli oneri che la gestione dei servizi sanitari impone loro.