Širom – foto Tim Van Veen

Le Guess Who? è giunto alla quindicesima edizione e si è ormai ritagliato un posto speciale tra i festival musicali europei. Il cuore della rassegna di Utrecht, che si è svolta lo scorso fine settimana, sta nell’apertura dello sguardo, nello smarcarsi da qualsiasi etichetta legata a un genere specifico; la vocazione è quella della ricerca, assunta come missione nei progetti più d’avanguardia oppure declinata come spinta alla curiosità e all’innovazione all’interno di altre correnti.

UNA delle particolarità del festival sta nella scelta continua a cui lo spettatore è chiamato: con circa quindici sale in attività – di cui cinque all’interno del TivoliVredenburg, centro culturale della città olandese e sede principale della manifestazione – possono arrivare a contarsi fino a dieci concerti contemporaneamente. È meglio quindi abbandonare subito la hybris di coprire tutto e puntare piuttosto a costruire un proprio percorso all’interno del programma, lasciando possibilmente aperti alcuni spazi per la scoperta e lo sconosciuto. È quasi una lezione di vita, compreso qualche inevitabile rimpianto; con il risultato della singolarità dell’esperienza così come della parzialità di ogni resoconto, necessariamente influenzato dalle scelte compiute.La cantante maliana Oumou Sangaré, nel suo set tra funk e afrobeat, ha invocato la pace per il suo Paese dilaniato dalla guerra così come per il mondo intero Un altro punto chiave del festival è quello degli artisti-curatori: ogni anno alcuni musicisti vengono scelti per occuparsi di parte della programmazione, in quest’edizione il compito era affidato al gruppo rock sperimentale Animal Collective da Baltimora; alla realtà underground londinese CURL; al progetto rap losangelino clipping. Il risultato è una line-up monstre da circa 150 artisti – di cui una parte si sono esibiti nel festival parallelo gratuito U? – in quello che avrebbe dovuto essere l’anno del ritorno alla normalità, risultato raggiunto solo in parte. Nel 2021 infatti Le Guess Who? era stato investito dalle misure sanitarie proprio durante lo svolgimento, problema che non si è presentato stavolta; la partecipazione è stata calorosa, con il sold out dei biglietti raggiunto da diverso tempo, ma diversi artisti hanno dato forfait, anche con poco preavviso, a testimonianza di come la pandemia abbia reso fragile il circuito musicale. L’assenza più dolorosa è stata sicuramente quella dei Low, causata dalla scomparsa della cantante e batterista Mimi Parker. Oltre a loro, hanno deciso di cancellare il tour per le spese non sostenibili gli stessi Animal Collective – sostituiti dal progetto del cantante Panda Bear, in coppia col musicista Sonic Boom – così come è venuta meno la rapper afroamericana Moor Mother.

MA NONOSTANTE le defezioni, Le Guess Who? è stato una vera «celebrazione del suono» come recita uno dei suoi slogan, ma anche dell’apertura alle sonorità del mondo, all’avvicinamento attraverso la musica di un pubblico curioso e interessato alla qualità della proposta piuttosto che ai nomi di richiamo. Si diceva dello spirito di ricerca, che sicuramente non manca ad una delle maggiori sorprese del festival, gli sloveni Širom. I loro strumenti tradizionali, insieme a quelli autocostruiti e all’ausilio di pentole e vari oggetti, generano un canto che sembra salire dalle profondità della Terra e che non teme di esporsi nella fragilità, seguendo un «sacro fuoco» fuori dal tempo. Decisamente più ironico l’utilizzo degli elementi folklorici da parte dei Goat, la band svedese regala un concerto pieno di energia riempendo la Ronda, la sala principale; ai costumi sgargianti ispirati al paganesimo abbina una miscela di psichedelia e glam rock trascinata da danze sfrenate e ritornelli catchy. Un rapporto con la musica folk, seppur mediato da una reinterpretazione votata alla sperimentazione, ce l’ha anche Lucrecia Dalt. Aggiunta all’ultimo momento, l’artista colombiana torna al festival dopo essere stata curatrice lo scorso anno per presentare l’ultimo album ¡Ay!. Dalt è bravissima nella creazione di un’atmosfera densa e intima, la sua voce modificata elettronicamente viene sostenuta dal percussionista che sceglie strade poco prevedibili.

Panda Bear & Sonic Boom – foto Lisanne Lentink

Il legame con la terra di provenienza e la sua tradizione musicale è fondamentale poi per la cantante maliana Oumou Sangaré, il suo set tra funk e afrobeat fa danzare l’intera sala, riuscendo però a veicolare un importante messaggio di pace per il suo Paese dilaniato dalla guerra così come per il mondo intero. Un intervento necessario in una manifestazione che ha visto i musicisti essere tendenzialmente di poche parole, evitando di intervenire sul momento che stiamo attraversando.

IL RAP in questa edizione è stato particolarmente presente, tra i tanti nomi si fanno notare i già citati clipping. Il progetto unisce la ricerca in ambito elettronico con la frontalità dell’hip hop, il gioco però è di trattenere in parte le energie e di non concedere sempre al pubblico ciò che chiede. In ambito rock sono stati assoluti protagonisti gli inglesi GNOD con due concerti. Il primo, al locale De Helling – dove si è svolta la programmazione più heavy – più tirato e abrasivo mentre il secondo, al Tivoli, ha virato verso l’anima stoner con un profluvio di chitarre e la doppia batteria ad avvolgere il pubblico. Deludenti invece i Dry Cleaning, seppur molto attesi, agli eredi dei Sonic Youth più pop manca l’incisività dei maestri. Una menzione finale per Panda Bear & Sonic Boom, le loro canzoni solari rappresentano forse al meglio lo spirito del festival, dove le ascendenze beatlesiane si mescolano ad elementi country rielaborati in sonorità sintetiche, piccoli inni allo stare insieme su questo mondo.