Lo guardi da lontano e sembra un paesaggio lunare, surreale e metafisico, di chi era già famoso per i suoi Landscape paintings. Ti avvicini e realizzi che il paesaggio lunare, con verdi e blu a rilievo su orizzonte di terra e terra in ocra, sono carcasse di aerei, deformati e ammassati in modo da assumere nuova forma agli occhi di chi li contempla a distanza. È fin troppo facile a questo punto interpretare allegoricamente come ‘la natura violentata dalla tecnica’, all’insegna di un paradigma postromantico (riecheggiano Friedrich e Palmer) che vede la modernità come perdita dell’innocenza e della purezza di fronte a una natura vergine e incontaminata. Tanto più se si presta attenzione (la ‘macchia’, secondo un’estetica lacaniana) a quell’uccello bianco, un gufo o un gabbiano, che se ne va sull’orizzonte a destra del quadro: la vita non è più sulla terra, né nella sua rappresentazione, ma solo in un volo che chissà dove conduce. La luna che guarda dall’alto è calante, ma all’interno di un tondo che mostra il vuoto oltre che il pieno.
Sto guardando Totes Meer (Dead Sea, 1940-’41) di Paul Nash alla mostra a lui dedicata dalla Tate Britain (fino al 5 marzo; catalogo a cura di Emma Chambers, Tate Publishing, pp. 192, sterline 24.99): quella che sembra materia in movimento, onde marine o rilievi frastagliati, è in realtà un cumulo di macerie, che dalle fotografie di guerra si trasformavano in scheletri, come scheletri di animali preistorici che giacciono in plastico disordine. Era un mondo surreale, di forme fantastiche e metallo ritorto, quello che la guerra stava creando: il modo di pensare e di guardare cambiava e Nash voleva renderne conto.
Cose penetrabili e porose
Già pittore di guerra (War Painter) e pittore di paesaggi (Landscape Painter), come lo descrivono tutte le biografie, Nash (1889-1946) aveva ormai incontrato il surrealismo da un pezzo, ben prima del coinvolgimento nell’International Surrealist Exhibition del 1936, dove espose accanto a Breton, Dalì, Ernst, Giacometti, Man Ray, Mirò e Tanguy, fra gli altri. «La divisione che facciamo tra notte e giorno – il mondo della consapevolezza e quello del sogno, la realtà e ciò che le è alternativo, non funziona. Si tratta di cose penetrabili, porose, traslucide, trasparenti; insomma, non esistono», scrisse in un appunto intitolato Dreams, ora agli archivi della Tate.
Bisogna guardare anziché spiegare: un oceano di metallo, scrisse Eric Newton curandone la Memorial Exhibition nel 1948, la morte di centinaia di mostri, il gesto impotente dell’onda che si rompe, un mare arrabbiato ma morto. Ecco perché la troppo facile opposizione tra natura e tecnica non funziona più: è una metamorfosi, quella che Nash rappresenta, in cui le cose sono ancora riconoscibili nella loro differenza eppure fuse in un’immagine di morte senza speranza. Immagini incoraggianti per noi, ma deprimenti per il nemico, si disse, e forse Nash era pure d’accordo, visto che aveva accettato l’incarico di official war artist nel 1940 – di qui il titolo in tedesco in funzione antigermanica: è quest’uso propagandistico e nazionalistico, insieme alle due categorie già menzionate di pittore di guerra e pittore di paesaggi, ad aver ostacolato l’apprezzamento di Nash come uno dei più grandi interpreti del modernismo europeo, da collocare nelle maglie di una rete che parte da Dante Gabriel Rossetti e William Blake, attraversa De Chirico, Picasso e Klee e arriva a Henry Moore, Eileen Agar e Julian Trevelyan.
Invece di leggerlo per fasi storiche (illustratore negli anni della formazione, pittore della prima guerra mondiale in giovinezza, pittore di paesaggio e dell’immaginazione tra le due guerre, pittore della seconda guerra mondiale negli anni alla vigilia della morte), sempre in sintonia con le grandi mostre del momento (prima dei surrealisti, Recent development in British painting fu del 1931 e Unit One del 1934), Nash andrebbe oggi visto nella continuità di un’esperienza che sfidò sempre i confini, al punto che definirlo British è davvero limitante e persino un po’ deprimente. Tensioni mistiche affiorano nei paesaggi, alla ricerca di quello che gli antichi chiamavano genius loci, lo spirito che dà anima e unicità a ogni dove. Lì è casa, se con quello spirito entri in comunicazione: il paesaggio era sistema di relazioni e la terra diventava mare già nei disegni a inchiostro e acquerello del 1911-’12 (Bird Garden; The Pyramids in the Sea), prolungandosi fino alle percussioni cromatiche di The Battle of Germany del 1944. La mostra giunge quindi opportuna, dopo gli studi fondamentali di Andrew Causey e Roger Cardinal che ne hanno dimostrato il carattere visionario e mistico di matrice europea, anche se non mancano irritanti celebrazioni della Britishness.
Eroismo dei soldati inglesi
Era il 1918 quando, su incarico del Ministero dell’Informazione, Nash cominciava The Menin Road (1919), una tela alta quasi 2 metri x 3 di lunghezza, destinata a una Hall of Remembrance per celebrare l’eroismo e il sacrificio dei soldati inglesi caduti nella prima guerra mondiale: conservato ora all’Imperial War Museum (la Hall non fu mai realizzata), The Menin Road è spesso letto come omaggio alla forza d’animo inglese contro le devastazioni operate dalla guerra. Due coppie di soldati, una più avanti e l’altra sullo sfondo, camminano al centro di un paesaggio boschivo di tronchi mozzati, che si specchiano in un lago semighiacciato con oggetti sparsi. Il cielo, in cui le nuvole si confondono coi fumi dei gas e delle esplosioni, è squarciato da due improvvisi raggi di luce verde e azzurra, a rompere la dominante di grigio, marrone e bianco del resto della tela. Tutto è geometrico, secondo le istruzioni che prescrivevano dipinti in grado di riportare in vita la celebrazione della guerra nelle opere di Paolo Uccello alla National Gallery. Eppure, già qui, la visionarietà prevaleva sulla geometria e l’immagine sul simbolismo: serve sempre, certo, il critico che parla di raggi della speranza vs paesaggio di morte, sopravvivenza dell’umanità vs devastazione della tecnica, ecc., ma, già qui, il visivo non invoca concettualizzazioni allegoriche. Vuole essere visto e basta, perché, appunto, come dirà Nash circa vent’anni dopo, giorno e notte non esistono. Ci sono solo metamorfosi, processo vitale, trasformazione e passaggio. Per chi viene dopo è facile costruire continuità e differenze, ma che il Nash della seconda guerra mondiale riprenda ed evolva quello della prima, in filiazione anziché in rottura, potrà essere un modo di scorporarlo dalla categoria di War painter inteso come pittore di propaganda (che pure fu) e renderlo War painter nel senso di interprete della guerra (che certamente è). « Gas! Gas! Quick, boys!», urlava disperato George Owen nello stesso anno in cui Nash cominciava a dipingere The Menin Road: lo stesso senso di un mondo in cui forze inaspettate e incontrollabili hanno trasformato la guerra da lotta umana in smorfia di dolore e paura si trova nella spettralità altrettanto angosciosa, per desolazione, nudità e perfezione, di una tela come We Are Making A New World, del 1918, dove è il mondo senza vita del domani a far male come lo sguardo sbarrato del compagno morto per soffocamento che Owen porterà sempre nei suoi sogni.
Gli alberi sognanti
Se è contro la guerra, Nash, è perché la guerra la dice, anziché giudicarla e concettualizzarla: perciò non c’è vera frattura fra i War paintings e i Landscape paintings, in quanto l’occhio di chi guarda per dipingere vuole ‘contemplare il mistero piuttosto che analizzarlo’, come suggerì una volta. Non c’è nulla da capire, ma solo abitare lo spazio, tanto dell’orrore quanto della bellezza. La sottigliezza del punto di vista, l’irrazionalità della geometria formale e la soggettività dello sguardo sul reale si traducono in paesaggi, stanze e oggetti, varianti di una ricerca che punta a dare emotività alla visione, perché porta in luce ciò che non è visto solo perché non è percepito. Chi guarda più a fondo, coglie relazioni impreviste, ma deve immergersi per potersi staccare (conseguenza, forse, del suo punto di partenza come illustratore) : «O alberi sognanti, sprofondati in uno svenimento di sonno / che avete voi visto in questi posti misteriosi?», scriveva intorno al 1909 in una poesia per Mercia Oakley che può funzionare da esergo per tutta la sua opera, con quell’ambizione «to paint trees as tho’ they were human beings». L’umanità, esaltata o negata, nella natura o nella tecnica, è il grido più forte contro la guerra, sempre: perciò l’onda va e viene, perciò gli alberi si stagliano solitari, perciò l’oggetto è un personaggio.