Bastano dodici grandi opere per mandare a monte tutti gli sforzi per limitare la crisi climatica. È quanto emerge da un rapporto redatto da 18 Ong internazionali, tra cui l’italiana Re:Common, che ha di fatto certificato come il comparto fossile e quello della grande finanza siano stretti in un abbraccio mortale per la salute del Pianeta. Se realizzati, questi mega progetti emetteranno 175 miliardi di tonnellate di anidride carbonica, ovvero un volume di CO2 sufficiente a esaurire metà del budget di carbonio rimanente per rispettare la fatidica soglia di 1,5 gradi Celsius prevista dall’Accordo di Parigi di cui si è appena celebrato il quinto anniversario.
I dodici buchi neri per il clima, ma anche per l’ambiente e in alcuni casi per i diritti umani, sono sparsi su tutto il globo.

La massiccia espansione del North West Shelf Project di Burrup Hub, in Australia occidentale, da parte della Woodside Energy e dei suoi partner causerebbe nell’arco dei 50 anni di vita stimati per l’estrazione di gas il rilascio in atmosfera di circa 4,4 miliardi di tonnellate di CO2. Per dare un ordine di grandezza, parliamo di circa otto volte le emissioni di gas serra dell’Australia dello scorso anno.

In Asia è la folle corsa all’obsoleto carbone e alle sue infrastrutture a veder coinvolti vari paesi. Nelle Filippine nuove centrali sono destinate a produrre ben 13,8 gigawatt di energia, anche a dispetto della moratoria per questo tipo di impianti annunciata lo scorso ottobre dalle autorità locali. I lavori già programmati, infatti, dovrebbero andare avanti senza intoppi. Qualche speranza in più c’è per il Bangladesh, dove anche il governo di Dakka ha predisposto una sorta di blocco alla costruzione di centrali e si pensa che 13 delle 16 in fase di realizzazione potrebbero non vedere mai la luce. Ma intanto rimane il dato, esorbitante, delle strutture già progettate.

Se puntare sul carbone è una scelta in netto contrasto con gli appelli della comunità scientifica, che chiede di abbandonare del tutto il più inquinante dei combustibili fossili al più tardi nel 2040, anche lo sviluppo del fracking non sembra essere da meno. In quattro province della Patagonia argentina i due giganti del settore estrattivo Total e Shell sono tra le società coinvolte nello sfruttamento dell’enorme riserva di idrocarburi di Vaca Muerta, sebbene l’impiego della fratturazione idraulica nel caso specifico sia stata fortemente criticata dalle stesse Nazioni Unite già nel 2018. I rischi per la salute, legati all’inquinamento massiccio delle falde acquifere e dell’aria, sono considerati troppo elevati, mentre sullo sfondo si staglia la crisi dell’intero settore del fracking – che infatti in Argentina riceve ingenti sussidi, anche perché buona parte dell’energia prodotta è destinata all’export. Pure nel Paese sudamericano se la tabella dei lavori non dovesse essere cancellata, l’incremento delle emissioni di gas serra si attesterebbe tra il 40 e il 50 per cento entro il 2030.

La Norvegia, dipinta da tanti come l’esempio virtuoso da seguire per raggiungere una giusta transizione energetica, ha in programma di rilasciare 136 nuove licenze di estrazione, delle quali ben 125 sono localizzate nel Mar di Barents. Stupisce meno l’intraprendenza statunitense nel beneficiare delle sconfinate riserve petrolifere del Permian Basin, tra il Texas e il New Mexico. All’inizio del 2020 la produzione giornaliera di barili di petrolio ha raggiunto i 5 milioni, come in tutto il territorio dell’Iraq. Non ci vuole un esperto per capire che Permian Basin è una gigantesca fonte di gas serra: 64 miliardi di tonnellate di nuova anidride carbonica, circa un terzo del totale dei dodici progetti. Dati che fanno veramente tremare le vene dei polsi.

L’espansione dell’industria del gas in Mozambico, guidata dalla nostrana Eni insieme alla francese Total, sta causando devastazione e violenze nella regione di Capo Delgado, nel nord del Paese e davanti allo specchio di mare dove fra il 2010 e il 2013 sono state scoperte enormi quantità di gas: oltre cinquemila miliardi di metri cubi, la nona riserva più grande al mondo. Cabo Delgado è il cuore dell’attività terroristica di Al Shabab e dall’ottobre del 2017 i gruppi di insorti hanno aumentato gli attacchi contro le popolazioni civili e le forze militari. Fino ad ora il conflitto ha causato la morte di oltre 1.100 persone, con più di 100 mila sfollati. «Ma oltre 600 famiglie sono state costrette a lasciare la propria casa per far spazio alle infrastrutture dell’industria del gas», ricorda Alessandro Runci di Re:Common, tra gli autori del rapporto internazionale. Insomma, una situazione esplosiva, come certamente destabilizzante da un punto di vista geopolitico potrebbe essere l’avvento del gasdotto EastMed nel Mediterraneo orientale, con l’italiana Edison in prima fila per la realizzazione di un’opera che partirà dalle riserve di gas naturale israeliane del bacino del Mar di Levante per poi andare verso Cipro, presso il Giacimento di Afrodite, Creta e terminare quindi in Grecia. Una pipeline che non piace a Erdogan e che è già fonte di profonde tensioni seppur sia ancora solo sulla carta.

E proprio sulla carta rimarrebbero tutte queste grandi opere senza l’aiuto della grande finanza globale. Le super-potenze americane Blackrock, Vanguard e Citigroup guidano la classifica dei maggiori finanziatori delle società coinvolte in questi progetti, seguiti dalle inglesi Barclays e Hsbc e dalla francese Bnp Paribas, per un totale di tremila miliardi di dollari.

Ad alimentare l’espansione fossile ci sono anche le italiane Intesa Sanpaolo e Unicredit, che complessivamente, dal 2016 ad oggi, hanno finanziato con 30 miliardi di dollari le società che guidano i 12 progetti, con Eni in cima alla lista dei beneficiari. Ma se di recente Unicredit ha compiuto qualche passo avanti significativo in materia ambientale, Intesa rimane molto indietro, non avendo nemmeno una politica di esclusione dei finanziamenti al carbone. Ma, come abbiamo visto, non è l’unico grande player internazionale a credere ancora nei combustibili fossili e nelle grandi infrastrutture che li sostengono.

* Re:Common