Arriva con tempismo perfetto Le nostre braccia. Meticciato e antropologia delle nuove schiavitù (Milieu, pp. 169, euro 14,90) di Andrea Staid, in un momento politico caratterizzato di sovranismi e fronti identitari, dal rigurgito di razzismi espliciti o camuffati, dipanando un groviglio di tematiche non facile da districare. Partendo dalle analisi di Francesco Remotti, per cui l’identità è un modo distorto di guardare al passato che impedisce di pensare il futuro, Staid distingue tra comunità immaginaria e comunità reale: la prima ha scarsi legami con la storia è il frutto del nostro pensiero. Una rappresentazione. Un’invenzione. Infatti l’identità non è un oggetto storico, ma un oggetto mentale, un parto della mente, che può avere conseguenze storiche reali.

COME SOSTENGONO François Laplantine e Alexis Nouss, l’identità è presieduta, dalla logica binaria del principio di non contraddizione e del terzo escluso, e come tale pone le basi per una cultura fondata sia sulla logica dell’essere, contrapposta a quella del divenire: è ostile al «pensiero del fuori» (Foucault, Deleuze) e l’unico rapporto possibile di questa logica identitaria – a livello individuale e sociale – con l’altro da sé non può che essere quello a cui mette capo ogni fanatismo, che proprio da tale logica, si alimenta: la violenza della guerra.
Il concetto di identità e le sue ossessioni hanno ricevuto negli ultimi decenni diversi colpi demolitori, dagli studi Luigi Luca Cavalli-Sforza alle teorie di Judith Butler, insieme alle proposte di Anna Camaiti Hostert e a quelle di Sandro Mezzadra.
Se in Logiche meticce Jean-Loup Amselle, critica la “ragione antropologica”, non complice ma figlia di un’ideologia coloniale che tendeva a separare i soggetti dal loro contesto e a classificare, distribuendo così, grazie al rapporto di forza favorevole, attributi e definizioni destinati inevitabilmente a diventare categorie politiche, Staid rivendica alla sua antropologia lo statuto di sapere di frontiera che l’avvicina «a una delle priorità del pensiero libertario ovvero quella della negazione dei confini, della convinzione che le frontiere sono fatte per essere scavalcate».

QUELLO DI STAID non è solo un libro di ricche riflessioni teoriche e politiche, ma un’utile bussola per orientarsi nel reale proprio perché parte dalla concretezza di una solida inchiesta che si basa su interviste a molti migranti, sulla loro vita e sullo sfruttamento subito, e sull’attento utilizzo dei dati riportati da Renato Curcio in I dannati del lavoro. Anche per questa sua caratteristica il testo di Staid è «necessario» in un mondo «confuso e lasciato in balia dell’odio da chi non sa come risolvere i dilemmi economici e lavorativi», come scrive Igiaba Scego nell’introduzione. Le postfazioni di Andrea Perin e Bruno Barba articolano ulteriormente i concetti di transculturalità e meticciato tra lavoro vivo e nuda vita