Bernard Berenson conobbe Giovanni Morelli nel gennaio 1890, a Milano, nell’appartamento dello storico dell’arte bergamasco in via Pontaccio. Morelli era troppo anziano e stanco per star dietro agli entusiasmi di Berenson, fu quindi il devoto Gustavo Frizzoni ad accompagnare il giovane lituano nei musei e nelle gallerie cittadine. Durante quelle giornate meneghine, e grazie a Frizzoni, Berenson capì quanto la fotografia aveva contato nella strutturazione del metodo critico del «greatest connoisseur» e quanto le recenti evoluzioni tecniche avevano e avrebbero di nuovo cambiato le carte sul tavolo della storia dell’arte, con un effetto comparabile – scrisse – a quello che ebbe l’introduzione della stampa negli studi dei classici. L’invenzione dell’emulsione ortocromatica aveva infatti reso il mezzo tanto adatto alla riproduzione delle superfici dipinte da determinare una cesura: la restituzione dell’intensità tonale di tutto lo spettro del visibile, pur sul bianco e nero, permetteva di superare le vecchie difficoltà, concentrando la lettura dei quadri non più solo sul disegno e sulle forme, ma anche sui colori. La connoisseurship, insomma, poteva diventare una disciplina scientifica vera a propria.
Nel mezzo, tra i dagherrotipi veneziani collezionati da Ruskin e i grandi serbatoi digitali di oggi, le interferenze tra la fotografia (e l’uso delle immagini fotografiche) e la disciplina storico artistica si sono intensificate indissolubilmente, tanto che a metà del Novecento l’immagine liminare di Berenson può essere ribaltata da Roberto Contini: non avere la possibilità di citare i testi è, per uno storico della letteratura, come se un critico d’arte «dovesse rinunciare persino alle fotografie». Lungo il secolo non sono mancate esperienze più o meno virtuose che sono riuscite ad ampliare lo sguardo – non solo degli storici dell’arte – sui capolavori del passato. Dalle figurine con i quadri dei maestri del Rinascimento e del Barocco nei pacchetti di sigarette – quando, e siamo negli anni Trenta, «molti collezionisti, nella loro inguaribile sete d’arte, devono aver fumato smodatamente» – alla collana dei «Maestri del Colore» del quale si è fatto, giustamente, un mito.
Campagne organizzate
Le riproduzioni a colori di quegli agili fascicoli editi dai Fratelli Fabbri derivavano perlopiù da campagne fotografiche organizzate per l’occasione. Erano arricchiti da saggi introduttivi chiari, a volte illuminanti, che accompagnavano nella lettura delle tavole; vi comparivano anche opere e artisti che fino ad allora erano esistiti soltanto nel ristretto mondo della critica d’arte e, non da ultimo, costavano poco. A un anno dal primo numero – era il 1964 – ne scrisse Giovanni Previtali: gli specialisti dei fascicoli Fabbri rendevano comprensibile alle masse una civiltà figurativa che fino ad allora era stata pericolosamente marginalizzata o esclusa del progetto educativo nazionale, mettendo così il patrimonio artistico in costante pericolo. Non volgarizzavano la cultura quindi, ma rispondevano alla necessità di un’alfabetizzazione storico-artistica dell’opinione pubblica, a fronte di una scuola che faceva poco e male.
Ci si ritrova con problemi simili anche in epoca di fotografia digitale e in più oggi ci sono la sovraesposizione che annichilisce la memoria vissuta, l’infinita reiterazione, la spettacolarizzazione dei capolavori – i Leonardo in ultra HD, i Dentro Caravaggio, gli atti d’amore per i frammenti e le superfici corrusche, gli artifici filmici sulle ombre e i «contrasti emozionali» – mentre si casca spesso sulla qualità delle riproduzioni di opere di fronda, o almeno non appetibili per il pubblico di massa. Anche oggi, quindi, è soprattutto questione di qualità e consapevolezza critica, oltre che di quantità. Se per riprodurre un’opera basta uno scatto non professionale, magari fatto con un telefono cellulare nel buio di una chiesa, e se pure quella fotografia diventa a volte abbastanza leggibile da finire impaginata in un saggio, documentare quello stesso dipinto, quella scultura, è un’altra cosa.
Rendono bene l’idea i primi quattro fascicoli di ArtchivePortfolio (Giovanni Bellini. Il Battesimo di Cristo di Santa Corona; Donatello. Il Crocifisso del Santo; Paolo Veronese. Il Martirio di Santa Giustina; Antonio Rossellino e Benedetto da Maiano. La Cappella Piccolomini d’Aragona), un progetto editoriale, e non solo, che sfrutta la competenza di Mauro Magliani, da anni specializzato nella fotografia di opere d’arte (per approfondire: www.artchiveonline.org). Ognuno dei dossier descrive una singola opera attraverso un corredo iconografico – nelle pubblicità di qualche anno fa si sarebbe detto «sontuoso» – che è ripercorso passo passo dal saggio introduttivo (rispettivamente, di Antonio Mazzotta, David Lucidi, Xavier Salomon e Antonella Dentamaro; il prezzo varia, a seconda del libro, dai 14,90 ai 19,90 €).
L’idea di dossier su una singola opera costruito con tavole sciolte e testo è di vecchio corso e risale, per l’editoria italiana, almeno al 1946 della collana «Apologie dei capolavori dell’arte italiana» della Bompiani. Una serie interrotta presto, diretta da Pietro Maria Bardi e con contributi di Argan, della Wittgens e di Bardi stesso, che accompagnavano riproduzioni «in nero e a colori nelle misure originali» dei volti nella Primavera di Botticelli o di quelli della Deposizione Borghese di Raffaello, pronti per finire appesi nei salottini di un’altra epoca. A differenza di quella, e delle successive e più recenti collane simili, i fascicoli di ArtchivePortfolio cercano di allargare il discorso, come in parte facevano i «Maestri del Colore», presentando capolavori oggi perlopiù poco noti o non facili da osservare da vicino. Testo e immagini entrano in una connessione strumentale, senza però rinunciare a tracciare in modo chiaro e accessibile la storia materiale dell’oggetto e quella del suo autore, in una lettura ben lontana dalle banalizzazioni da prime time. Le tavole poi si sciolgono, non essendo rilegate, permettendo confronti e combinazioni che rimandano a un modello di studio da fototeca, come tornando al punto zero della ricerca storico-artistica, a Morelli, a Berenson, alle verifiche, ai paragoni, di Longhi.
La scrittura dell’artista
Le bellissime fotografie di Magliani consentono un’analisi paziente dell’insieme e dei dettagli: si possono isolare le forme, studiare le superfici, cercando di capire la scrittura dell’artista. Lo sforzo di ogni fascicolo è, insomma, quello di guidare alla scoperta di un’opera interlocutori nuovi, non avvezzi al linguaggio specialistico ma sufficientemente aperti per farsi sedurre dal racconto delle sfortune di Battista Graziani, il committente della pala vicentina di Bellini, o dal potentissimo portato emotivo del Crocifisso di Padova di Donatello, sospeso tra l’ideale eroico, tra richiami classici e lo sconquasso sentimentale, drammatico, causato dalla sofferenza straziante della fine di un corpo. Con i prossimi numeri si potranno affrontare allo stesso modo, con identica limpidezza di sguardo, altre opere, come lo spettacolare trittico vaneyckiano di Bartolomé Bermejo ad Acqui o il luminoso liquido inafferrabile nel quale è immersa la pala di Brera di Piero, o cercare di mettere a fuoco oltre la nebbia che si propaga sull’orizzonte della pala Portuense di Ercole de’ Roberti.