Almeno tre le notizie che ieri hanno riportato l’attenzione sull’incandescente attualità del Burundi. Amnesty international ha diffuso immagini satellitari che proverebbero l’esistenza di almeno cinque fosse comuni, localizzate alla periferia della capitale Bujumbura, contenenti decine e decine di corpi sepolti dalle forze di sicurezza dopo i gravi scontri di piazza esplosi lo scorso dicembre, quando la protesta contro la decisione del presidente Pierre Nkurunziza di correre per un terzo mandato presidenziale, in barba alla Costituzione, è stata duramente repressa. La denuncia è corredata di video e testimonianze, ma il governo nega ogni accusa. Nei giorni scorsi anche l’Onu aveva sollecitato un’inchiesta sui fatti di quei giorni.

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Sempre ieri, anche in seguito alla richiesta piuttosto imperiosa di Parigi, sono stati rilasciati i due giornalisti stranieri – il giornalista francese Jean-Philippe Rémy e il fotografo britannico Phil Moore, entrambi inviati di «Le Monde» – arrestati il giorno prima durante una retata di oppositori. Nessuna accusa specifica per loro, ma tutto il materiale gli è stato sequestrato e l’accredito stampa ritirato.

 

Burundi al centro dell’attenzione anche a Addis Abeba, dove è in corso il summit dell’Unione africana, con all’ordine del giorno l’invio di una forza di «stabilizzazione» di 5 mila uomini per fronteggiare il rischio che nel paese esploda una nuova guerra civile.

La misura allo studio potrebbe essere solo un modo per mettere pressione a Nkurunziza e convincerlo ad avviare un dialogo che sia aperto e inclusivo con tutte le opposizioni. Lui ha già definito l’eventualità «un’invasione» e non sembra voler sentire ragioni, malgrado il ministro degli Esteri angolano ieri a margine del vertice abbia aperto alla possibilità che la posizione del presidente burundese si faccia più «ragionevole».

Secondo Pancrace Cimpaye, portavoce del Conseil National pour le Respect de l’Etat de Droit au Burundi (Cnared), che raccoglie gli oppositori a un terzo mandato di Nkurunziza, se l’Ua rinunciasse all’invio delle truppe a protezione dei civili «i burundesi si sentirebbero abbandonati e deciderebbero di autodifendersi». A quel punto, ammonisce Cimpaye, si aprirebbe un «grand boulevard» verso il conflitto. «E una guerra civile in Burundi – ha aggiunto – non è buona notizia per il Congo né per il Ruanda né per la Tanzania, non è buona per nessuno».