Giovedì il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato all’unanimità una risoluzione per colpire le risorse finanziarie dello Stato islamico. Sollecitata dagli Usa e dalla Russia, la risoluzione mira a negare al Califfo l’accesso al sistema finanziario internazionale, strumento «centrale di ogni strategia per distruggere» l’Isis, ha sostenuto Samantha Power, ambasciatrice americana alle Nazioni Unite. Di nuovo c’è poco, se non l’insistenza con cui si chiede a ogni paese di dare conto, entro 120 giorni, dei risultati raggiunti. E la richiesta al segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, di produrre entro 45 giorni «un rapporto di livello strategico» sulle finanze dell’Isis.

Potrebbe essere utile: tutti fanno ipotesi sulla ricchezza a disposizione del Califfo, ma nessuno ha dati certi. Secondo uno studio condotto nel 2014 dalla Thomson Reuters, lo Stato islamico controllerebbe asset per un valore complessivo di 2 trilioni di dollari, con un utile annuale di 2.9 miliardi. Oggi quelle cifre appaiono inverosimili. Secondo un’analisi del gruppo di consulenza IHS, alla fine del 2015 lo Stato islamico avrebbe guadagnato circa 80 milioni di dollari al mese, di cui il 43% derivato dal petrolio e dal gas. Il ricercatore Aymenn Jawad al-Tamimi attribuisce al petrolio e al gas una centralità molto inferiore: il 27.7% del budget totale.

I suoi calcoli si basano su documenti ufficiali del ministero della Finanze dell’Isis per la provincia siriana di Deir Ezzor, controllata dal luglio 2014. Nella provincia più «produttiva» dell’Isis, gli introiti legati al gas e al petrolio sarebbero di 66.433 dollari al giorno. Moltiplicati per le altre zone di produzione, la somma rimane lontana dai 3 milioni al giorno di cui i media hanno parlato nel 2014. Una stima più verosimile, sostiene al-Tamimi, si attesterebbe sul 5-10% dei 3 milioni ipotizzati. Nel dicembre 2014, con un’inchiesta condotta in 7 diversi paesi inclusi Siria e Iraq, i giornalisti di Die Zeit hanno dimostrato che il Califfo ricaverebbe tra i 270.000 e i 360.000 dollari al mese da petrolio e gas. Su base annua, ha scritto sull’Espresso Leonardo Maugeri, a lungo direttore Strategie e sviluppo dell’Eni, si tratterebbe di «poco più di 91 milioni di dollari».

Una cifra comunque sufficiente a oliare una consolidata rete di contrabbando, precedente alla nascita dell’Isis, di cui si avvantaggiano in molti, amici e nemici del Califfo, dalla Turchia di Erdogan al regime di Assad, e allo stesso governo curdo iracheno. È a queste complicità che punta la risoluzione dell’Onu. Destinata a produrre scarsi risultati.

Perché la vera solidità finanziaria dell’Isis, più che nelle fonti conosciute – petrolio, reperti archeologici, saccheggio delle banche, sequestri e donazioni dal Golfo – sta nel suo carattere «statuale». Per il ricercatore Aymenn al-Tamimi, la percentuale dei profitti legati alle tasse e alle confische arriva al 72.3% del «Pil» del Califfato, almeno nella provincia di Deir Ezzor: petrolio e il gas, 27.7%; elettricità, 3.9%; tasse, 23.7%; confische, 44.7%. Le imposte variano dal 2.5% fino al 10% o al 20%, e si applicano su prodotti e servizi di base: le reti di telefonia mobile; l’accesso a Internet; la raccolta dei rifiuti; la vendita al dettaglio; gli affitti di edifici governativi; le bollette per acqua e luce; i redditi e i profitti individuali; i raccolti dei campi; la pulizia nei mercati; il bestiame; i piccoli commerci; le immatricolazioni delle automobili; gli scavi archeologici. Per il Financial Times, soltanto le imposte sul grano e sul cotone valgono 23 milioni di dollari all’anno. Una cifra che sale a 200 milioni, considerato il valore dei depositi di grano sottratti al controllo dei governi iracheno e siriano.

Per Charles Lister, autore di The Syrian-Jihad: Al-Qaeda, the Islamic State and the Evolution of an Insurgency, grazie alle imposte «l’Isis può guadagnare fino a 600 milioni di dollari all’anno, riscuotendo una tassa del 50% sugli impiegati pagati dal governo, una tassa dal 3 al 5% su tutti gli affari locali e una tassa tra il 10 e il 15% su tutti i camion commerciali che passano per il suo territorio». Una scelta razionale, strategica: «dall’occupazione americana dell’Iraq, l’Isis e i suoi predecessori hanno consapevolmente scelto di costruire e mantenere affidabili e durevoli fonti di finanziamento interno per non dipendere dalle donazioni esterne, come ha tradizionalmente fatto Al-Qaeda».

L’unica vera novità della risoluzione dell’Onu è nominale: la lista delle sanzioni ora porta anche il nome dello Stato islamico, non solo quello di al-Qaeda. La modifica ha un forte valore simbolico. Uno schiaffo per gli eredi di Bin Laden, in feroce competizione con Abu Bakr al-Baghdadi. E un riconoscimento per il Califfo. La sua organizzazione è la più ricca del pianeta. Ha fatto tesoro degli errori dello sceicco saudita, troppo dipendente dalle donazioni esterne. Il Califfo ha costruito l’indipendenza finanziaria attraverso la statualità. Evoca il millenarismo apocalittico, ma ha la calcolatrice in tasca. I profitti dell’Isis dipendono dalla struttura burocratica e amministrativa. Le fonti sono i territori controllati, la popolazione governata. Un’assicurazione contro le misure di contro-terrorismo finanziario. Le sanzioni ai donatori e l’esclusione dal sistema bancario internazionale? Armi spuntate, fino a quando Abu Bakr al-Baghdadi controllerà un vasto territorio e circa 8 milioni di persone.