Nella collana Videns delle edizioni Mimesis, dopo Olympia della Riefenstahl e Greed di Stroheim, esce ora una monografia di Renato Tomasino, Angoscia, introdotta da un dialogo con Emiliano Morreale (Mimesis ed. – MIlano, Udine -2016). Angoscia (qui presentato anche in DVD) è il titolo col quale è conosciuto in Italia il film Gaslight (1944) di George Cukor , interpretato da Ingrid Bergman, Charles Boyer e Joseph Cotten: titolo cambiato secondo una prassi italiana deprecabile quasi quanto la pratica generalizzata del doppiaggio. In questo caso però, a parte il fatto che il cambio fu autorizzato dalla M.G.M. (produttrice del film), bisogna riconoscere che un titolo come Angoscia risulta altamente evocativo e non tradisce l’atmosfera dell’opera, tratta da una commedia di Patrick Hamilton. Non solo: il titolo innesta una serie di riferimenti suggestivi allora imprevedibili, come quello a La paura (Angst) di Rossellini, del 1954, debitamente ricordato nel dialogo con Morreale, in cui Ingrid Bergman va incontro a vicissitudini in parte simili a quelle di Angoscia – e la lettura di Tomasino, di forte impronta psicanalitica, non manca, da parte sua, di basarsi sul Seminario X – Angoscia di Lacan (con i debiti richiami al Seminario VIII – Il transfert).
Perché questo libro è importante? Per una serie di ragioni, che vanno anche oltre il valore, pur cospicuo, del film di cui si occupa. Intanto, ripercorrere la filmografia di Geoge Cukor, dagli esordi nel 1929 come dialoghista fino al 1981 (data del suo ultimo film, Ricche e famose), significa ripercorrere la storia del cinema hollywoodiano e dello star-system, a partire dall’avvento del sonoro. “Regista delle donne”, era considerato Cukor, direttore di Dive e grandi attrici, come Katharine Hepburn, Greta Garbo, Joan Crawford, Judy Holliday, Judy Garland, Sophia Loren, Marilyn Monroe e molte altre, tra le quali, appunto, Ingrid Bergman. Si trattava poi di tornare sulla nozione di autorialità e di capire come fosse possibile essere “autori” a Hollywood e salvaguardare i propri margini d’indipendenza, pur nell’ambito di un sistema produttivo in apparenza così rigido e poco articolato. Cukor, a differenza di uno Stroheim o di un Orson Welles, riesce a essere pienamente “autore”, sfruttando a suo vantaggio le regole dello star-system e utilizzando al meglio l’altissimo standard tecnico assicurato dall’organizzazione degli studios. Da questo punto di vista, Tomasino mette bene in evidenza come la ricezione del cinema americano, e di Cukor (a lungo considerato come un semplice “artigiano”) in particolare, fosse a lungo offuscata in Italia da un persistente pregiudizio ideologico, che rendeva ciechi (salvo poche eccezioni) di fronte a opere di cui, in nome d’un contenutismo male inteso, non si riusciva a cogliere il valore innovativo.
Il punctum del libro di Tomasino consiste però, prima di tutto, nella messa in evidenza del teorema analitico che soggiace al film, al di là dell’appartenenza a questo o quel “genere”. La trama è nota: il pianista Gregory (Charles Boyer) ha ucciso anni prima, a Londra, una famosa cantante d’opera, per derubarla dei suoi gioielli, senza però riuscire a trovarli. Ora seduce Paula (Ingrid Bergman), nipote della cantante, la sposa, torna con lei nella casa del delitto, e tenta di darla impazzire, per farla ricoverare e poter cercare con agio quei gioielli che è sicuro siano nascosti nella soffitta della vecchia casa. Per questo, mette in atto su Paula una serie di rituali sadici, cambia posto alle cose, le nasconde e le fa credere che le abbia perse, la accusa di scambiare le sue immaginazioni per realtà e di continue dimenticanze, tronca ogni rapporto sociale, sparge la voce che è malata ecc. – fino all’intervento risolutivo del detective Cameron (Joseph Cotten) che ne smaschera le macchinazioni e salva Paula (di cui è innamorato). Questa serie di piccoli e grandi sadismi, capaci comunque di portare alla pazzia chi ne è vittima, è addirittura entrata nella terminologia medica proprio col nome di gaslighting, dal titolo della commedia di Hamilton – ma c’è desiderio, oscuro e inconsapevole, nel sadismo del carnefice, come nella sottomissione della vittima, e giustamente Tomasino lo sottolinea. L’oggetto bramato è il gioiello prezioso nascosto, l’ágalma lacaniano, l’ornamento, il feticcio, l’oggetto parziale. Un gioiello, anzi, molti gioielli, in bella vista, cuciti sull’abito con il quale la donna assassinata era stata dipinta in un quadro da un famoso pittore, ma Gregory non li vede, se ne accorge troppo tardi, secondo la legge della lettera rubata di Poe e Lacan, per cui risulta invisibile ciò che ci sta sotto gli occhi.
E Paula? Ingrid Bergman è la bellezza trasognata, la “Venere passiva” di cui parlava Michele Mancini, destinata ai sadismi del partner. Dice Bataille, citato da Tomasino: “La dolcezza, la rotondità, l’effusione come lattea della nudità femminile anticipano una sensazione di fuga liquida, che apre alla morte come una finestra sul cortile”, osservazione che risuona stranamente hitchcockiana, e fa venire in mente analoghi ruoli di Ingrid, da Notorius a Spellbound – almeno fino al ribaltamento finale, quando Gregory, ormai catturato, implora la moglie di liberarlo dalle corde che lo immobilizzano, ed è lei ora a fingere, sadismo supremo, la scena della pazzia.