L’artista franco-algerino Kader Attia (Seine-Saint-Denis 1970, vive e lavora tra Berlino e Algeri) è il protagonista in Italia di una personale (la sua terza) alla galleria Continua di San Gimignano, prima della partecipazione alla 57/ma Biennale di Venezia nella mostra Viva arte viva. Anche in Reflecting Memory (fino al 23 aprile) il tema centrale è la memoria in rapporto alla sua rappresentazione, tra dovere, illusione e percezione. Lo abbiamo incontrato alla vigilia della sua inaugurazione.

Nel suo approccio di «ricercatore della memoria» ha grande influenza il concetto di museo, catalogazione, archivio. In che modo questo aspetto si relaziona con la tradizione orale della cultura berbera e, in generale, africana?
L’ambivalenza tra l’eredità scritta e la tradizione orale m’interessa non tanto come conflitto tra due modi di pensare, o due aspetti politici dell’amministrazione umana e della società, ma molto di più per la possibilità che mi ha dato di crescere tra due culture. Mia madre è berbera, proviene dalla montagna algerina dove la tradizione orale è ancora molto importante. Quanto alle pratiche di collezionare, scrivere, accumulare – prendiamo l’esempio degli animali imbalsamati – rappresentano una definizione di potere e superiorità, secondo la mentalità occidentale. Per controllare l’universo non si deve far altro che riprodurlo nella scala del proprio corpo. È quello che, nel XVI secolo, si chiamava Gabinetto delle Curiosità.
Nell’installazione Objects of desire ho messo sulla stessa mensola gli animali imbalsamati, che rappresentano questa tradizione del collezionare – in Europa è stata uno dei più alti simboli di modernità – e, dall’altro lato, manufatti provenienti da società primitive che riproducono coccodrilli, cavalli, ragni… e che rimandavano alla tradizione orale. È l’esempio perfetto di come la modernità sia nata su basi illusorie. Abbiamo creato una illusione di superiorità, del confort, dell’essere felici, della conoscenza. La modernità, con la sua ossessione della superiorità e del controllo ci ha fatto perdere quella necessità di magica speculazione sull’universo stesso che le società primitive conservano ancora, proprio attraverso l’oralità. Queste comunità non hanno mai costruito confini intorno al loro universo di riferimento, come gli spiriti buoni o cattivi. È qualcosa di fondamentale perché lascia il mistero, la fragilità, la poesia e fa germinare tante di quelle cose che sono state messe da parte.

Nell’atto di costruire e decostruire in cui sono presenti imprevisto, malinteso, storia dimenticata… quanto è importante l’uso di materiali instabili come il couscous cotto o l’olio d’oliva?
L’opera incarna la fragilità del sé, mettendoci di fronte all’idea della sparizione, ma soprattutto all’idea che non siamo noi a collezionare manufatti e opere d’arte, ma sono gli oggetti a collezionare noi. In quest’ottica, il foglio di carta assorbente messo nell’olio d’oliva è un’azione. Alla fine dell’esposizione sarà gettato via. Mostra il tempo, come un orologio. Ma non è una sua rappresentazione, è l’idea del tempo che avanza. È la tradizione orale stessa. È come una vecchia donna o un uomo anziano che raccontano storie.

Kader Attia,
Self-destruction, 2017 (Photo by Ela Bialkowska)

È stato suo padre ad affermare che per un emigrante non è importante il paese che lascia o quello che trova, ma l’idea stessa del viaggio?
Sì, il viaggio è molto importante per ragioni diverse. Édouard Glissant diceva che nel XXI secolo la gente sarebbe nata in una cultura, avrebbe vissuto in una seconda e morta, probabilmente, in una terza. Credo che questo sia vero, il mondo è come un arcipelago. Siamo sempre in movimento, pensando anche a internet.
Ma se si guarda alla politica – in Italia, Francia, Stati Uniti, Germania… – è esattamente l’opposto. Il populismo nega questa realtà e ripropone discorsi fascisti degli anni Trenta, come «siamo una nazione potente, dobbiamo essere un’unica nazione!» E quando Trump afferma che tutti quei cittadini musulmani non sono più autorizzati ad andare negli Stati Uniti, non fa che aiutare l’islamismo. Il progetto di Daesh, infatti, è quello di togliere i confini, creando il Califfato che è l’Umma. Trump favorisce la radicalizzazione, rimappando il territorio per un nuovo islamismo. Il nazionalismo del XXI secolo è un concetto completamente sbagliato. Il problema del mondo in cui viviamo è la ricomparsa dei fantasmi del passato. E di fantasmi ce ne sono, perché ci sono ferite mai rimarginate. Eccoci ritornare all’incapacità del pensiero moderno occidentale di prendere in considerazione la riparazione come punto cruciale dell’evoluzione. La riparazione esiste ovunque, anche nell’evoluzione naturale ed è quella che si chiama selezione naturale, ma culturalmente la mente umana non vuole capirlo, soprattutto quella moderna cresciuta con l’idea della superiorità.

Lei ha iniziato a fotografare negli anni ’90 quando era in Congo. Dalla fotografia, passando per il collage, è arrivato all’installazione…
All’epoca vivevo in Spagna, ma dovevo fare il servizio militare sia in Francia che in Algeria, visto che ho il doppio passaporto. Trovai che in Francia sarebbe stato più breve e scelsi il servizio civile, andando in Congo con un’Ong. Arrivare a Brazzaville è stato uno shock! Potevi morire e nessuno lo avrebbe mai saputo. Mi affascinava però poter lavorare a progetti con i manufatti. Un progetto bellissimo fu un libro per i bambini, realizzato in collaborazione con il Ministero per l’educazione. Poi, avendo tempo a disposizione di pomeriggio, iniziai a fotografare. Scattai tante foto, sviluppando i rullini da me. Fotografavo oggetti, soprattutto le maschere, che disegnavo pure. Fu un momento perfetto: sperimentavo senza dover prendere una direzione. Quando tornai in Francia, mi iscrissi a un’altra scuola di belle arti indirizzata alle arti decorative. La frequentai per due anni, anche se in realtà non andai spesso a lezione, perché ero più interessato a fotografare di notte i transgender. Non mi piaceva andare in quella scuola di idioti figli della borghesia. Quando ero in Congo un amico mi aveva dato un tessuto di rafia, ero rapito dai dettagli decorativi.
A distanza di anni ho scoperto che quegli elementi non erano decorativi, ma si trattava di riparazioni che celavano, dietro a piccole cuciture, un buco fatto da un topo o da un insetto. Cominciai a guardare a quella riparazione come a una sorta di eco di una conversazione con un transgender che non aveva mai avuto il certificato psichiatrico per fare l’intervento chirurgico e il cambio di sesso. Era un’amica ed era così depressa che piangeva davanti allo specchio, seminuda. Ricordo ancora quell’immagine toccante. «Dio lo deve riparare, questo non è il mio corpo», diceva. Dentro era una donna, ma fuori era un uomo. Era la prima volta che sentivo usare la parola «riparare da qualcuno». Non in un libro o in ambito accademico, ma dalla transgender Kinuna.
Quel tessuto di rafia era quindi un codice. Sono una persona curiosa che si guarda intorno e quando ci si guarda intorno si crea la connessione con le cose. In seguito, ho continuato a investigare, scoprendo che il concetto di riparazione presso le società primitive ha un significato completamente diverso rispetto all’occidente. È il posto in cui le lesioni devono essere percepite, viste come ferite, per poter essere sanate. Nella mentalità occidentale moderna, invece, le ferite devono scomparire. Per molti, riparare significa aggiustare, rimuovere con velocità le lesioni, così come le rughe sul volto. Questa contraddizione è l’illusione del mondo in cui viviamo.
Le società primitive non nascondono le cicatrici, anzi ne creano anche sul corpo, come le scarificazioni. Il vero limite è il tempo. La modernità pretende di combattere contro il tempo e non vuole ammettere che fa parte dell’universo, perché nasciamo, viviamo e moriamo.