Una brezza salmastra soffia in aperta campagna e un vocio di donne riunite a parlare di lavoro rompe il silenzio. «Questo progetto, queste persone sono un dono di Dio». I capelli raccolti in trecce rosse, Zainab Jegede (nome di fantasia) non sa come farebbe oggi senza Cappelli per le Fate. Il progetto è partito nel 2022 con un corso in agricoltura sociale lanciato dalla cooperativa sociale Be Free. È destinato a donne in uscita da percorsi di violenza. Il legame con la terra è un aspetto centrale, non solo perché qui viene coltivata. Distrutta in tutto il mondo dalle guerre e dai cambiamenti climatici, la terra e il femminile sono unite dal filo rosso della violenza.

LE DONNE DI CAPPELLI PER LE FATE rivendicano il lavoro agricolo retribuito, il riconoscimento di ciò che fanno fuori dalle logiche di produzione e sfruttamento. Per questo hanno deciso di fondare una cooperativa, non un’azienda. Lo spiega Zainab in un misto di italiano e inglese, stringendo fra le mani il verbale della sua audizione alla Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale. «È un po’ brutta la mia storia», esclama con una risata amara. Arrivata in Italia dalla Nigeria, è stata una vittima di tratta a scopo di sfruttamento sessuale.

IN LIBIA È RIMASTA PRIGIONIERA per mesi, sul corpo ha ancora i segni delle torture. «Ma in tutto questo brutto c’è anche un po’ di bello» sostiene Zainab, che sorride e guarda Yusuf Achebe (nome di fantasia), seduto al suo fianco in silenzio. La loro storia d’amore è nata nell’inferno del carcere libico. Zainab e Yusuf oggi vivono qui nella sede di Cappelli per le Fate, una volta fuori dal centro di accoglienza che li ospitava non avrebbero avuto alternative. Quando le hanno proposto di partecipare al progetto, Zainab ne è subito rimasta entusiasta. Ha imparato come coltivare i kiwi frequentando un’azienda agricola partner, una di quelle che si sono offerte per insegnare i mestieri dell’agricoltura alle donne. Potatura, cimatura, sfogliatura.

Concimazione, raccolta, controllo qualità. «Il tipo di agricoltura che abbiamo scelto e che le donne hanno imparato ha un occhio rivolto alla biodiversità, al biologico e alla tutela dell’ambiente» spiega Alessandro Scacchi, agronomo e tutor didattico di Cappelli per le Fate. Quello che Scacchi immagina per il futuro è «un contenitore di progetti»: cibo a chilometro zero nell’area ristorante in costruzione, fattoria didattica, laboratori. «Lavori oggi per aspettare un domani», ripete Zainab mentre divide i kiwi nei sacchetti di carta. Non è solo l’attesa dei frutti, il domani di cui parla è il futuro in autonomia. Finalmente è protagonista delle proprie scelte, della propria vita. «Non è facile passare da assistita a imprenditrice» spiega Laura Ferrari Ruffino, vicepresidente della onlus Cora Roma, che collabora con Cappelli per le Fate. «Una parte importante del loro percorso è stato recuperare competenze e fiducia nelle proprie possibilità».

FERRARI RUFFINO SI È OCCUPATA dell’orientamento formativo delle donne coinvolte nel progetto, oggi otto, tutte di origine diversa: italiane, nigeriane, polacche, rumene. Secondo Ferrari Ruffino, l’obiettivo per queste donne non è diventare «imprenditrici rampanti», ma fare un lavoro sociale, che restituisca qualcosa alla comunità. Per Barbara Leda Kenny, esperta di politiche di genere, «la violenza ha degli effetti di disintegrazione dell’autostima delle donne che ne sono vittime e invece l’imprenditoria richiede moltissimo ottimismo perché c’è un fattore di rischio».

QUELLO CHE HA DECISO DI ASSUMERSI Tereza Iancu, l’imprenditrice agricola di Cappelli per le Fate. Rumena, vive in Italia da 20 anni. Entra nel pollaio sormontato da un albero di limone, aggiunge al mangime dei gusci d’uovo secchi, sbriciolati, sostenendo che facciano bene agli animali. Ha gesti decisi, un carattere forte. «Mi ci hanno fatto diventare, così».

TUTTE LE DONNE HANNO UN RUOLO determinante, qui si lavora in squadra. «Il contatto con la gente, gli eventi, preparare qualcosa per gli altri. Avere cura» è quello che preferisce Katarina Kowalski (nome di fantasia). Di origine polacca, ha svolto il suo tirocinio nella fattoria sociale Tenuta della Mistica, dentro la città di Roma ma fuori dal suo rumore, un luogo per fermarsi e stare insieme. Katarina ammette, ridendo, che in quello che cucina «c’è un ingrediente segreto… l’amore». Qui ha imparato anche come collaborare con i fornitori e gestire la burocrazia di un’attività. Si è avvicinata al progetto Cappelli per le Fate per amicizia con la presidente, Paola Biondi. All’epoca Katarina frequentava un centro antiviolenza, era lontana dalla famiglia e doveva occuparsi di sé stessa e della figlia, senza alcun aiuto.

«TORNASSI INDIETRO CAMBIEREI TANTE cose, tornerei al mio Paese». È un fatto culturale tutto italiano: non c’è niente che compensi la carenza di una rete familiare. In Italia il sistema istituzionale dell’antiviolenza prevede l’assistenza nei centri e nelle case rifugio, ma «abbiamo un secondo step che dal punto di vista delle risorse, delle infrastrutture, dei servizi è molto più fragile ed espone anche al rischio di recidive» racconta Kenny. Per l’esperta, in Italia si fa ancora troppo affidamento sulla rete informale e familiare come rete di welfare. Le donne vittime di violenza spesso sono lontane dalle famiglie d’origine e alcune volte i familiari non sono d’accordo che provino a sottrarsi alla violenza.

QUEST’ANNO È STATO FINANZIATO nuovamente il reddito di libertà, un contributo economico mensile di 400 euro, erogabile per 12 mesi al massimo. Un sostegno importante per le donne vittime di violenza seguite nei centri accreditati dalle regioni o dai servizi sociali. Tuttavia, non vengono ancora immaginate «politiche di co-housing, di condivisione della cura, servizi centralizzati che possano servire a più nuclei. Forme nuove di pensare le relazioni». Per Kenny «quello che manca è un approccio intersezionale», che tenga conto delle differenze di genere nell’accesso alle politiche economiche, dei punti di partenza che non sono uguali per tutti, dei divari che attraversano il nostro Paese. Le donne migranti sono soggette a doppia discriminazione e si scontrano con ulteriori muri: l’accesso alla lingua, lo scarso riconoscimento delle loro competenze. Anche tornare indietro è complicato. Per Zainab sarebbe stato impossibile, in Nigeria le vittime di tratta sono fortemente marginalizzate.

L’OBIETTIVO DI LUNGO PERIODO È CHE Cappelli per le Fate diventi una palestra per avviare all’autonomia le donne ospiti nei centri antiviolenza e nelle case rifugio di Roma. Uno spazio di donne per donne, dove fare tirocinio, imparare un mestiere e uno stile di vita. Secondo l’indagine europea condotta nel 2020 dalla Fundamental Human Rights Agency, infatti, il rischio di violenza domestica si attenua per le donne economicamente indipendenti e che guadagnano quanto o più del proprio partner. Il lavoro rappresenta quindi un fattore di protezione per le donne, nonostante non le protegga del tutto.

Zainab e Yusuf camminano nell’orto, indicano l’inizio e la fine della loro terra. Gli occhi di Yusuf si illuminano, l’espressione seria si scioglie in un sorriso largo. «A luglio nascerà nostro figlio». Grazie al lavoro agricolo, un’altra vita è possibile.

*Questo reportage è stato realizzato nell’ambito della Scuola di giornalismo della Fondazione Lelio e Lisli Basso.