A distanza di tre anni dall’approvazione della cosiddetta riforma Gelmini, si possono trarre alcune considerazioni sugli effetti che ha prodotto, a partire da un’analisi ex-post delle convinzioni che ne sono state alla base e degli obiettivi che si prefiggeva. La «riforma» viene qui intesa in modo ampio, comprendendo la riduzione dei finanziamenti alle università pubbliche, e viene ricondotta a una strategia finalizzata a ridurre gli «sprechi» nelle università italiane e ad accrescere la quantità e la qualità della produzione scientifica italiana, premiando il «merito».

1) La decurtazione di circa il 15 per cento del fondo di finanziamento ordinario si è resa necessario, ci è stato detto, per gli obiettivi di stabilità delle finanze pubbliche. In altri termini, in un contesto di austerità, l’università è chiamata anch’essa a fare sacrifici. I sacrifici si sono fatti, ma è discutibile il fatto che l’obiettivo sia stato raggiunto. Il rapporto disavanzo pubblico/Pil – previsto per il 2013 al 2,9 per cento – si attesta al 3 per cento, con peggioramento, rispetto alle previsioni, dal 2,5 per cento al 2,7 per cento. Più in generale, le politiche fiscali restrittive attuate con la massima intensità nell’ultimo triennio hanno portato il rapporto debito pubblico/Pil dal 107 per cento del 2007 al 120 per cento del 2012 al 133 per cento del 2013, decretando l’assoluta irrazionalità delle misure di austerità e, per conseguenza, la totale inutilità dei tagli alla ricerca ai fini dell’aumento dell’avanzo primario. A ciò si aggiunge che, a fronte di tagli operati per l’intero settore pubblico, il sistema formativo è stato quello che li ha subìti in misura più consistente. Da ciò si deduce che il perpetuare una politica di sottofinanziamento delle Università non può essere giustificato con la necessità di mantenere «in ordine» i conti pubblici.

2) Si è ritenuto che riducendo la spesa pubblica per la ricerca scientifica questa sarebbe diventata più produttiva, dal momento che si sarebbero ridotti gli «sprechi». Si tratta di una convinzione molto diffusa, secondo la quale – in linea generale – è solo rendendo scarse le risorse che si incentiva a farne un uso efficiente. Ma, anche in questo caso, si tratta di una tesi falsificata sul piano empirico. Prima della «riforma», e in particolare dal 2006 al 2010, su fonte Scimago, si registra che il sistema universitario italiano si è collocato all’ottava posizione, su scala mondiale, per numero di citazioni ricevute. Nello stesso intervallo di tempo, l’Italia era collocata al decimo posto, su scala mondiale, per prodotto interno lordo. In altri termini, la «cura dimagrante» somministrata all’università pubblica italiana viene imposta proprio nel periodo nel quale quest’ultima è stata massimamente produttiva.

3) La «riforma» è stata accompagnata da un’accesa campagna mediatica che ha dipinto l’Università italiana come luogo di corruzione, nepotismo, baronaggio. A fronte di questo, la 240/2010 introduce la figura del ricercatore a tempo determinato le cui prospettive di carriera e di stabilizzazione sono, con ogni evidenza, nelle mani del professore che ha bandito il concorso. Non si possono avere dubbi sul fatto che questa misura rischia di generare l’effetto esattamente opposto rispetto a quello dichiarato: il precariato in università può accentuare fenomeni di baronaggio, limitati, per contro, da contratti di lavoro a tempo indeterminato. (…)

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