È stato fino all’ultimo la Palma d’oro annunciata, il titolo su cui tutti scommettevano e persino prima dell’inizio del Festival dove era in gara nonostante fosse uscito in sala, nel suo paese, la Spagna, da almeno un mese. Invece la giuria di Alejandro Inarritu, come sappiamo, ha scompigliato desiderata e pronostici premiando però come migliore attore il suo protagonista, Antonio Banderas. Una decisioni perfetta perché Dolor y Gloria – uscito anche nelle nostre sale in contemporanea alla proiezione festivaliera – vive interamente su di lui capace di incarnare melò, dramma e commedia senza mai farsi «intrappolare» nella sua parte – e il doppiaggio italiano purtroppo non restituisce le sfumature di toni e modulazione della voce – ma resistendovi e insieme abbracciandola con ogni muscolo, nervo, sguardo, alzata di sopracciglio, mal di testa, sorriso.

Il film è tutto qui, e qui è anche lo scarto di questa autobiografia, o autofinzione chiusa tra due estremi: Dolor y Gloria, dolore e gloria, ovvero le età del regista – e della sua innocenza? – cucciolo e ragazzo inquieto, uomo e artista di fama, ora in crisi ispirazione dopo molti successi che si lascia levitare nelle acque di una piscina prima di immergersi – quasi come in una seduta psicanalitica – nella propria esistenza. E, appunto, in quella del suo cinema.

SALVADOR Mella (Banderas) vive recluso in un bell’appartamento che somiglia un po’ a un museo, è un regista ma ha smesso di fare film, le sue giornate trascorrono in piscina, dove si immerge per trovare sollievo al mal di schiena che lo prostra accudito dalla signora delle pulizie e da un’assistente preoccupata per quella depressione che la morte della madre e i problemi alla schiena hanno acuito. Gli oggetti che lo circondano, i ricordi, i pensieri non accendono alcuna scintilla, l’ispirazione tace e questa sofferenza moltiplica le ossessioni, dilata l’angoscia dell’età che avanza.

Nei sogni Salvador torna indietro nel tempo, si rivede bambino insieme alla madre, Jacinta, amatissima (Penelope Cruz, e da anziana Julieta Serrano in un ideale prolungamento della coppia madre figlio con Banderas che era in Matador e Donne sull’orlo di una crisi di nervi), l’infanzia povera a Paterna, in provincia di Valencia dove i genitori erano immigrati, e poi adolescente nella scoperta del desiderio, ragazzo nella Madrid degli anni Ottanta. E ancora il primo amore e il dolore della sua perdita, la scoperta precoce del cinema, la scrittura come luogo catartico, e quel vuoto terribile che è l’assenza di creazione.Passato e presente, incontri e errori, figure reali e apparizioni oniriche: realtà e finzione si mischiano e poco importa sapere cosa viene dalla «vera» vita del regista Almodovar, e cosa invece appartiene a quella del personaggio – abiti, mobili, quadri e quant’altro. Perché tutto è già racconto, esiste nelle immagini del cinema di Almodovar che di questa vita si è nutrito, anche negli esiti meno riusciti, dichiarandone i passaggi e le esitazioni, gli slanci e la memoria.

E QUI È ANCHE a la scommessa del film, e la sua forza, ciò che lo rende più fluido e gli permette di uscire dall’impasse di un certo accademismo di cui l’opera più recente di Almodovar soffriva. Alle proprie immagini, dunque a sé, il regista pone delle domande, mettendo in luce l’archeologia di una coscienza fino ai suoi dubbi, e alle sue speranze, davanti a uno schermo bianco che vede ancora lui narrato da un altro. E nel gioco di specchi e di doppi Banderas è l’alter ego che permette di sfuggire alla celebrazione di sé, a quel gusto monumentale che di questa storia era il più grande rischio.

Cosa accadrà in futuro? Forse tutto, forse nulla, la domanda rimane sospesa, forse Almodovar oggi settantenne e con gli acciacchi – come il personaggio appunto – non girerà ancora ma in questa sua ricerca dentro alla sua pratica artistica, non è tanto questo che lo interessa. Almodovar si mette in scena con sincerità, sapendo che non può essere più lo stesso del passato, che ogni tempo – personale, storico – richiede un passo diverso, un ritmo che l’artista deve riuscire a cogliere per non replicarsi fino allo svuotamento. Una rinascita, o un finale,ma soprattutto l’affermazione del desiderio. Per il cinema, per la vita.