In un saggio magistrale, consacrato dalla raccolta Geografia e storia della letteratura italiana, Carlo Dionisotti tracciava la Varia fortuna di Dante in epoca moderna e marcava – vero punto di svolta – «nell’unanime e abbondantemente retorica e poetica celebrazione dantesca del 1865 l’ultima scena del favoloso dramma risorgimentale». Dal quel punto in avanti «uomini di scuola, professori e funzionari» della neonata Italia pur «disposti ad accettare o subire la disciplina di una nazione malferma e povera» non avrebbero però più tollerato «di farsi prescrivere da quel governo e da quella classe politica i limiti, scopi e procedimenti del proprio mestiere». Insomma il Dante risorgimentale, padre e ispiratore della nazione appena costituita, aveva terminato la propria funzione ed era tempo di guardare a lui e alla sua opera con occhi e metodi di ricerca nuovi, al pari delle altre nazioni europee: Germania, Gran Bretagna, Francia.
Fino ad allora gli studi danteschi avevano trovato il loro campione nel filologo tedesco Karl Witte, che in giovanissima età si era consacrato allo studio e all’edizione delle opere del poeta, forte di un metodo che in Italia era ancora di là da venire. Nato nel 1800 e laureato in giurisprudenza a sedici anni, dopo un triennio di studi in Italia era tornato in patria, prima come libero docente di diritto, poi, nel 1834, come cattedratico a Halle. Le sue cure dantesche produssero i primi saggi sul Convivio già nel 1825. Nel 1827 pubblicò, in un’edizione di soli sessanta esemplari stampata a Padova ‘al segno della Minerva’, il testo delle attuali Epistole III, V (nel volgarizzamento), VII, XI, XII e XIII. L’edizione raccoglieva il corpus più ampio delle Epistole fino allora noto e suscitò una notevole eco in Italia, esercitando una spinta importante per il progresso degli studi. Nel 1842 il poligrafo Alessandro Torri riusciva nell’impresa formidabile di scavalcare il Witte dando alle stampe la raccolta completa di tutte e tredici le Epistole rimasteci e avviando la costituzione di quel canone che è rimasto sostanzialmente intatto fino ai nostri giorni. L’impresa del Torri si rese possibile grazie al raggiungimento del codice Vaticano Pal. Lat. 1729, testimone di fine Trecento di mano del cancelliere perugino Francesco Piendibeni e latore di ben nove lettere dantesche.
La gara tra Italia e Germania per la loro pubblicazione è, in realtà, più complessa di quanto non appaia a un primo sguardo. Una efficace ricostruzione si deve ora a Enrica Zanin che ha studiato attentamente le carte del fondo Witte depositate presso la Biblioteca Universitaria di Strasburgo (Documenti e tracce delle prime edizioni delle epistole nel fondo Witte dell’università di Strasburgo). Il contributo rientra in una recente e ampia raccolta di saggi interamente dedicata alle lettere di Dante (Le lettere di Dante Ambienti culturali, contesti storici e circolazione dei saperi, a cura di Antonio Montefusco e Giuliano Milani, De Gruyter, pp. 636, € 99,95, ma anche in open access sul sito dell’editore). Come spiega Zanin, a mettere le mani sul prezioso testimone vaticano fu per primo lo stesso Witte, già nel 1837, per il tramite di Thodor von Heyse, uno studioso tedesco attivo presso la Biblioteca Apostolica. Dietro compenso, Heyse fornì a Witte una trascrizione delle Epistole ma Witte ne smarrì la copia proprio a ridosso della loro pubblicazione, mentre si recava in Svizzera. Nel frattempo anche Torri, con l’aiuto di un impiegato della Vaticana, raggiunse il prezioso manoscritto e pubblicò le lettere per primo. La vicenda si colora di tinte romanzesche nel tendenzioso resoconto che ne fece Niccolò Tommaseo nel 1865, secondo il quale Witte non solo si sarebbe attribuito il merito della scoperta celando il ruolo dello Heyse ma ne avrebbe anche taciuto l’opera di correzione del manoscritto. È evidente che a quell’altezza e per un lavoro simile nessuno avrebbe potuto nonché superare, neppure affiancare Witte nell’emendazione del testo, men che meno Heyse, che si occupava di tutt’altro. Ma l’acredine del Tommaseo ben si spiega a quella data: proprio nell’anniversario dantesco gli Italiani avrebbero dovuto riconoscere a due tedeschi una scoperta tanto rilevante. L’opera di Witte così come quella di Torri fu pionieristica e, per quei tempi, egregia (dire che nel 1827 Witte «pubblicava poco e male» mi pare ingeneroso), tanto che alcune letture dello stesso Torri sono state recuperate in edizioni recenti. Proprio al recupero della lezione originaria di due lettere trasmesse dal testimone Laurenziano XXIX 8, autografo del Boccaccio, si esercita il contributo di Marco Petoletti («Prospettive filologiche ed ecdotiche delle epistole dantesche a trasmissione monotestimoniale: le lettere VI e XII»), che non solo rivaluta alcuni emendamenti di Torri e Witte ma soprattutto rilegge la trascrizione del Boccaccio alla luce delle sue abitudini di copista, giudicando e liquidando sulla base di esse alcuni malcerti interventi correttorii degli editori moderni.
La storia della filologia presiede, come si accennava, alla formazione del canone delle lettere dantesche. Le tredici Epistole pubblicate nel ’42 resteranno tali nel numero fino ai nostri giorni. Certo alla fissazione e all’ordinamento del canone contribuì grandemente l’edizione complessiva delle Opere di Dante del 1921, presieduta e attentamente sorvegliata da Michele Barbi sotto l’egida della Società Dantesca. Non che di quel canone, prima e dopo il ’21, mancassero tentativi di revisione anche polemici. Alcune lettere parvero, specie in passato, poco consone allo spirito orgoglioso del poeta: così la consolatoria ai conti Guido e Oberto da Romena (Epistola II, ma probabilmente la prima in ordine cronologico) per la morte dello zio Alessandro, chiusa lamentando l’«inopina paupertas quam fecit exilium» che impedì a Dante di partecipare alle esequie; un reclamo analogo sigilla la celebre Epistola XIII a Cangrande della Scala, che per gli stessi motivi fu già guardata con sospetto (l’Epistola XIII è la grande esclusa dal volume, il che un po’ spiace). Così le tre brevi lettere a Margherita di Brabante, moglie dell’imperatore Enrico VII, scritte nel 1311 da Poppi, in Casentino, a nome della contessa Gherardesca dei Guidi di Battifolle: ospitate assieme ad altre lettere nel citato codice Vaticano 1729, sono prive di sottoscrizione, dettaglio che generò, specie a ridosso della loro pubblicazione, qualche perplessità. L’abbandono della prospettiva risorgimentale («Dante non potrebbe mai…») ha permesso agli studiosi di liquidare molti di questi dubbi approdando a una ricostruzione più rispettosa del dato storico, ma proprio la necessità di una più profonda comprensione del contesto ha consentito di produrre ricerche come queste, che mirano a un’indagine più puntuale degli elementi storico-culturali. A tal proposito – sono gli ultimi due affondi – Attilio Bartoli Langeli si focalizza proprio sulle lettere a Margherita di Brabante («Scrivere all’imperatrice»), evidenziandone non solo la tenuta retorico-formale (compatibile con quella di «un fior di letterato» meglio che con la cultura notarile ruotante attorno ai Guidi) ma collocandone opportunamente la stesura nell’itinerario biografico dantesco; Gian Maria Varanini («Cancellerie in dialogo. Nuove testimonianze su Enrico VII di Lussemburgo, gli Scaligeri e i Ghibellini italiani») dispiega la raccolta di modelli oratorii ed epistolari assemblata a Verona ai primi del Trecento dal notaio Ivano di Bonafine: sono lettere che entrano ed escono dall’entourage di Alboino e Cangrande della Scala e viaggiano verso le corti dell’Italia centro-settentrionale, con nomi significativi emiliani, romagnoli e toscani (Francesco della Mirandola, Maghinardo Pagani da Susinana, Aghinolfo conte di Romena, il capitano dei fuoriusciti nell’Epistola I di Dante). Siamo vicini, vicinissimo a Dante, e forse riusciamo anche a intravederlo.