Le due vite attive di Giulia Maria Crespi
«Il filo rosso», Einaudi: l'imprenditrice lombarda si racconta «Fanciullina» e «zarina»: tra le convulse, teatrali vicende del «Corsera» e un istintivo senso del bello come civiltà, da cui la fondazione del Fai...
«Il filo rosso», Einaudi: l'imprenditrice lombarda si racconta «Fanciullina» e «zarina»: tra le convulse, teatrali vicende del «Corsera» e un istintivo senso del bello come civiltà, da cui la fondazione del Fai...
Un volto da «fanciullina» (definizione di Spadolini, ai tempi della direzione del Corriere), un altro da «zarina» (firmato Montanelli). Lei spiega questa sua doppia natura con il proprio segno zodiacale, essendo dei Gemelli, nata un 6 giugno di parecchi anni fa: i prossimi saranno 94. Anche l’autobiografia che ha da poco pubblicato (Il mio filo rosso, Einaudi, pp. 455, euro 22,00) è un libro a due marce: quella sognante e bucolica di una donna conquistata dall’amore per la natura e per il paesaggio, e quella risoluta e bellicosa di un’imprenditrice da cui, per un paio di decenni, sono dipesi i destini del più importante quotidiano italiano, il Corriere della Sera.
Ha anche due nomi, Giulia Maria Crespi; ha avuto due mariti, il primo, Marco Parravicini, morto troppo presto in un incidente stradale; il secondo, Guglielmo Mozzoni, che invece l’ha lasciata pochi mesi fa, dopo una lunga vita insieme (è di suo pugno il ritratto della Crespi che fa da copertina al libro). Due anche i figli, guarda caso gemelli: Aldo e Luca. La vita di Giulia Maria Crespi è tutta all’insegna di questo doppio. «Due esseri distinti, due modi di vivere contrastanti e diversissimi. Come mai non riesco a fonderli?», si chiede ancora oggi, con quel tocco di ingenuità, un po’ vera e un po’ calcolata, che spiazza tutti gli interlocutori. «Non sapevo spiegarmelo e così ho proseguito per tutta la mia vita», scrive all’inizio di questo libro-fiume, in cui racconta, alternando rapide vorticose e lanche paradisiache, la «versione di Giulia Maria».
Un libro fiume, stipatissimo di incontri, di amicizie (e anche di tradimenti), di viaggi, di idee, di case, di vacanze, di feste, di persone, di animali, di piante. Non s’è fatta mancare niente Giulia Maria Crespi, e questo rende il racconto della sua vita, magari non sempre attendibile perché appassionatamente di parte, ma certo coinvolgente.
Le due Giulia Maria si dividono il libro: una occupa tutta la parte centrale con il racconto convulso, intricatissimo, e anche un po’ teatrale, delle vicende di via Solferino; l’altra invece si prende il primo e terzo capitolo, con una narrazione a tratti carica di epos e a tratti di una fanciullesca meraviglia.
Ovviamente il primo è un capitolo chiuso, seppure con qualche sussulto di nostalgia, mentre il secondo è capitolo quanto mai aperto.
In un libro che per la sua concitazione spesso è scevro di date, ce n’è una che invece è indicata quasi con solennità: estate 1958. Giulia Maria Crespi, in vacanza all’Elba, viene completamente stregata dalle descrizioni che Tatia Franchetti (moglie di Cy Twombly) le fa di una Sardegna ancora intatta e selvaggia. Detto fatto: con Guglielmo Mozzoni e la sua Giulietta, sbarca a Porto Torres per andare alla scoperta di un luogo che le era stato indicato, Cala di Trana, un tratto di costa e una collina in vendita. È amore a prima vista: se ne riparte per Milano «con il prezzo di acquisto in tasca». «L’evento più epocale della mia vita», lo definisce. «Più che una storia, un segno del Destino che si è dipanato negli anni con decisiva, assoluta coerenza» (la «D» è proprio maiuscola…). Sarebbero diventati quella cascina, quella duna, le rocce, le due spiagge un’isola felice preservata dall’assedio a cui la Sardegna stava per essere sottoposta da lì nel giro di pochi anni. Cala di Trana dà la chiave dell’approccio ambientalista di Maria Giulia Crespi: che è profondamente emotivo, totalizzante, non ideologico ma sempre molto pragmatico. Non c’è un’ansia sistematica nel suo fare, ma un avanzamento passo a passo, con la conquista di singoli spazi che a loro volta l’hanno conquistata con la loro bellezza. Spazi «liberati» da un’idea di sviluppo tutta sbagliata o da un degrado senza speranza. Per difenderli non conosce remore. Quando l’Enel avanza un piano per piantare delle antenne in cima alle rocce di Cala di Trana, grazie a un vicino che aveva «venduto» il passaggio, si fionda da Giulio Andreotti, che messo sotto pressione da questa pasdaran della natura, alla fine trova l’«inghippo»: mettere un vincolo per tutela storico-ambientale. E lei se ne esce dallo storico studio di San Lorenzo in Lucina con la vittoria in tasca.
Altra data che resta negli annali della Giulia Maria story è il 1967. Era impegnata nella sezione milanese di Italia Nostra e con Renato Bazzoni, architetto, paesaggista, ecologista prima che queste parole diventassero di moda, che con lei avrebbe qualche anno dopo fondato il Fai, lanciò l’idea di una mostra intitolata «Italia da salvare». «Epocale! Per gli Anni Sessanta questa mostra fu una novità assoluta di denuncia, una precisa documentazione sulla bellezza, consumo e degrado del paesaggio e dei beni artistici», ricorda oggi Giulia Maria. Esordio a Palazzo Reale di Milano, poi in giro per l’Europa con tappa anche a Bruxelles. «Ricordo Bazzoni, che era sempre in giro per montare e smontare pannelli», scrive Crespi. Anche il Corriere serve alle nuove battaglie di Giulia Maria: è lei a convincere Montanelli («…in questo mio silenzioso pugilato con i direttori del giornale») a raccontare e denunciare il degrado di Venezia. Saranno ben undici articoli, tra febbraio 1968 e settembre 1970, destinati ad accendere l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale su quella città gioiello. «E quali articoli! Quanto impegno, quanta forza e coraggio di denuncia! Un giorno durante questa battaglia Indro mi venne a trovare e mi disse: “Sa, non me l’aspettavo proprio, per Venezia un successo! I giovani mi circondano! Si risvegliano! Si attivano! Mi chiamano!”».
C’era sempre un qualcosa di giocoso nelle idee e nelle intuizioni di Crespi. Come quella volta che si presentò da Bazzoni con l’ultima sua pensata: fondare un enorme bosco a sud di Milano per dare respiro a una città in cui «le stelle ormai non si vedono più». L’amico Bazzoni reagì con una certa durezza. «Bisogna salvare la bellezza italiana altro che bosco!», le disse. Bisognava creare la cosa che non c’era, il National trust italiano. Una nuova realtà giuridica che prendesse in donazione beni storici da privati con l’impegno di restaurarli e valorizzarli. Era l’aprile 1975. Nasceva il Fai, Fondo ambiente italiano. Per due anni in realtà non arrivò quasi nulla. Poi nel 1977, per rompere gli indugi, Bazzoni e Franco Russoli, allora sovrintendente di Brera, convincono Giulia Maria a fare lei il primo passo, acquistando e donando al Fai il monastero di Torba, in provincia di Varese. Oggi il complesso di Castelseprio Torba, completamente restaurato, è entrato nelle liste del Patrimonio Unesco.
La notte di quello stesso capodanno Giulia Maria è invitata da Emanuela Castelbarco al magnifico Castello di Avio, in Val d’Adige. Dopo il brindisi con la spavalderia che la caratterizza si rivolge all’amica: «Perché Emanuela non doni tutto questo al Fai?». E dono fu; decine e decine di altri ne sono seguiti in questi quarant’anni. Un elenco lunghissimo di piccoli pezzi d’Italia rimessi in sesto e restituiti a una fruizione pubblica usando contributi privati. Uno dei più recenti per Giulia Maria Crespi ha rivestito un valore molto particolare, poiché si è trattato di un bosco: proprio un bosco come quello che si trovò costretta a «rinnegare» per buttarsi nell’avventura del Fai. È il Bosco di San Francesco («mio guru di elezione») ad Assisi, donato al Fai da IntesaSanpaolo. Una donazione avvenuta poco prima dell’elezione di papa Bergoglio, papa dalla coscienza ecologica molto decisa, la cui enciclica Laudato si’ viene continuamente evocata nel libro. Così da Francesco a Francesco, può concludere candidamente il suo libro l’eterna «fanciullina» Giulia Maria, «dopo il disastro la vita è tornata».
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