La mia prima Eneide fu un’edizione Paravia per le scuole medie con la versione poetica di Adriano Bacchielli, un marchigiano (come Annibal Caro) già allievo di Alessandro Ronconi. Mi attraeva soprattutto la rilegatura marrone con caratteri oro e un tondo, anch’esso dorato e in rilievo, raffigurante il trio fatidico, più l’intermittente Creusa, in fuga da Troia: ma l’immagine non produsse ahimè un nuovo Schliemann. Maggiore interesse provai invece per l’Eneide televisiva di Franco Rossi, trasmessa in sette puntate dal Canale Nazionale della Rai a partire dal 19 dicembre 1971, naturalmente in bianco e nero. Io avevo dodici anni. Due mesi prima era morto all’improvviso mio nonno paterno e la trasmissione dell’Eneide la domenica sera, forse per il suo rango, pose fine all’astinenza familiare dalla tv a causa del lutto. Ricordo che mi colpì, date le circostanze, la cerimonia funebre di Anchise, con le ceneri affidate al mare su una zattera sormontata da una sorta di trofeo di armi. Più avanti il bagliore di quell’emblema, inquadrato a dovere, attirerà le navi di Enea (sbarco in Sicilia, quarto episodio): una sorta di chiodo piantato durante il primo atto di un dramma, secondo l’aforisma attribuito a Cechov.
Come quando torniamo ai romanzi letti in gioventù dopo una vita, nei mesi scorsi mi sono messo a rivedere per intero l’Eneide televisiva: stavolta a colori, i colori fotografati da Vittorio Storaro. È stata una decisione maturata lentamente, quasi covata, a cui la ricorrenza del cinquantenario deve aver dato la spinta decisiva. Se guardo indietro mi accorgo infatti di aver raccolto diverse molliche di pane lasciate cadere lungo il mio sentiero chissà da chi (non ci ha forse insegnato Carlo Diano che può dirsi evento solo ciò che accade «per me»?): dunque, la pubblicazione di un Companion sui classici al cinema contenente un capitolo del curatore Arthur J. Pomeroy dedicato a Rossi (Ancient Greece and Rome on Screen, Wiley-Blackwell 2017); la sopraggiunta morte di Giulio Brogi (1935-2019), l’attore veronese che impersonò Enea dopo aver girato accanto ad Alida Valli, in una Sabbioneta un po’ metafisica, La strategia del ragno di Bertolucci (sorta di quest nel proprio passato con accenti psicoanalitici); il libro di Andrea Musio, un ricercatore salentino, Virgilio sul set tra poesia e cinema (Il Castello Edizioni, 2017), regalatomi brevi manu dall’amico Gianni Cipriani – latinista che fece molto per promuovere gli studi sulla ricezione; ancora, la pesca, in un mercatino romano, della «Domenica del Corriere» che nell’estate del ’71 dedicò la copertina allo sceneggiato «di punta» del prossimo inverno, mostrandone in anteprima a colori – i colori che non avremmo visto in tv – alcune scene. Potrei allungare questa lista con ulteriori richiami, ma sarà meglio non farsi stordire dal «come eravamo» e inforcare un più neutrale occhiale critico, se non storico-critico.

Nei dipartimenti di Classics
Diamo per acquisito intanto che in mezzo secolo è cambiato il linguaggio televisivo (dagli sceneggiati anni sessanta alle «serie» delle fiction), ma soprattutto sono mutate in profondità le condizioni con cui ci relazioniamo all’immaginario greco-romano negoziandolo sia pubblicamente – scuola, università, editoria, pubblicistica, social media – sia in una nostra ‘coscienza del Classico’. Chi del resto risponderebbe più alla domanda di T.S. Eliot con le parole e la sovrana certezza di Eliot?
Prima di trascrivere qualche nota personale su questa ‘seconda volta’, in un certo senso riverginata dal tempo intermesso, urge ancora un’osservazione: di ‘sociologia delle forme’ si sarebbe detto tempo fa. Anche se le (citate) pubblicazioni universitarie improntate ai Reception Studies, così come le tesi di dottorato ormai diffuse in Rete, ci indicano che l’Eneide televisiva è divenuta materia di studio per i dipartimenti di Classics e di antichistica, tuttavia come ‘prodotto culturale’ essa è stata inghiottita da un lungo oblio dopo la messa in onda nel 1971-’72 e la versione per le sale cinematografiche del 1974 (Le avventure di Enea). Fra l’altro non mi risulta che sia stata commercializzata in home-video, a differenza della più romanzesca Odissea, firmata sempre da Rossi pochi anni prima. Ma si sa, in tv le lacrimae rerum non possono certo gareggiare con la maga Circe o con l’accecamento del Ciclope, e dopotutto il primo confronto (perdente) avviene sui banchi del liceo. Vittorio Bonicelli, uno degli sceneggiatori, ammise candidamente: «È molto difficile far credere a un pubblico moderno che Enea si risolva ad abbandonare una donna incantevole, una comoda casa e un’ottima sistemazione soltanto perché un giorno riceve la visita di Mercurio il quale lo richiama ai suoi doveri “storici”».
È chiaro che si tratta di un peccato per così dire originale, è una questione di sistemi semiotici. A uno sceneggiatore non si chiede certo di saper leggere gli esametri, tutt’al più dovrà diventare un convincente demiurgo (come fece il Pasolini ‘grecista’ passando dalla scrivania alla macchina da presa). Ma si consideri per un attimo il delicatissimo funzionamento della macchina tecnico-poetica di Virgilio, in cui è ‘nascosta’ tutta la letteratura antica precedente: una volta che il prodigioso congegno viene liofilizzato per farlo entrare in una bottiglia di Perrault o di Andersen – non è forse questo la ‘riduzione’ televisiva? –, che ne sarà della lignée letteraria del personaggio di Enea o, visto che siamo tornati agli anni settanta, della funzione testuale chiamata ‘Enea’? Virgilio prese da Omero un comprimario della guerra di Troia (anche traditore della patria secondo un filone del mito) per consegnare ad Augusto un fondatore all’altezza; ma soprattutto per fare di lui – che è quel che più interessa – il portavoce di un’epica nuova: e questo non è affatto facile da visualizzare e trasporre.
Ben altri erano i problemi che assillavano la produzione. Nel 1969, di fronte a una platea stimabile in milioni di telespettatori, in che modo si poteva rendere interessante, se non attraente, Enea? Non lo si poteva certo connotare come uomo del destino, sia detto senza ironia. Dai materiali d’archivio emerge chiara allora la decisione di modernizzarlo: in che modo? Per esempio mettendo in crisi di continuo la sua identità di capo, e forzando in senso psicologistico ogni processo decisionale. Sia l’obbedienza ai misteriosi voleri del Fato, sia l’esercizio ordinario della leadership – specie dopo la morte del padre – appaiono sempre preceduti da prolungate incertezze e tormento interiore. Non so quanto consapevolmente, ma l’irresolutezza di Enea sembra perfettamente intonata alla ‘seconda voce di Virgilio’ (la voce dissidente) teorizzata pochi anni prima in America dalla scuola harvardiana.

Abbassamento dello statuto eroico
Rispetto agli studiosi che si davano battaglia sull’esegesi del poema di qua e di là dall’Oceano, gli autori dello sceneggiato potevano riscriverlo a piacimento, tagliando magari le parti meno interpretabili o meno idonee a una caratterizzazione forte dei personaggi (uno sceneggiato tv vive di pochi personaggi riconoscibili e riusciti). Il ‘loro’ Enea, ad esempio, avrebbe abdicato volentieri alle virtù militari spettanti al suo rango, alle spettacolari aristìe di stampo omerico in cui si sovrastano i nemici e si consegue la gloria in battaglia, dando modo al poeta di sfoderare il suo tour de force sinottico e anatomico. Ma nella Saturnia tellus, faticosamente raggiunta, Enea finisce suo malgrado in un nuovo conflitto, innescato durante la sua assenza. Noto di sfuggita che nel sintetizzarlo (un po’ troppo) gli sceneggiatori hanno spettacolarizzato gli effetti della «magia nera» di Giunone, incendiaria di animi. I duelli laziali del poema, poi, sono radunati tutti in fondo, nell’ultima puntata, sino al decisivo testa a testa di Enea col capo dei Rutuli, l’aitante Turno (un Andrea Giordana cotonato come il bassista dei Camaleonti). Nel gioco dei primi piani alternati, almeno all’inizio, sembra di vedere un western di Sergio Leone, fortunatamente senza ralenti.
L’abbassamento dello statuto eroico di Enea, apprezzabile lungo l’intero ciclo di trasmissioni, deve aver consigliato molti dei tagli praticati sul plot virgiliano – come l’episodio tutt’altro che decorativo delle armi forgiate dal dio Vulcano (una scelta pacifista?) –, e trova un suo corrispettivo attoriale nell’anti-divismo che caratterizza la performance di Giulio Brogi: prestazione ironica la sua, visto che interpreta il figlio di Venere. In realtà, fatte salve certe forzature sessantottine, l’umanizzazione di Enea non è una scelta del tutto arbitraria, perché in qualche modo essa recepisce dei tratti profondamente virgiliani, come il rimprovero rivolto alla madre, celatasi dietro mentite spoglie: «perché mi inganni continuamente?».
Ripensando al bambino di cinquant’anni fa, mi pare di sapere che il registro malinconico – non trovo oggi una parola più adeguata – di Enea-Brogi veniva esteso all’intero sceneggiato. Questa percezione, ritualmente domenicale, non era solo visiva; anche il tono e lo stile della recitazione, e la colonna sonora (Mario Nascimbene). Impossibile dimenticare l’angosciante ‘lamento di Didone’, proposto anche come sigla finale degli episodi, che era interpretato (e inciso su 45 giri) da Olga Karlatos, la giovane attrice greca divenuta la regina di Cartagine.
Ho accennato alla decisione degli autori di modernizzare Enea privandolo dei suoi attributi epici, per sottolineare meglio la sua presa di responsabilità. Si voleva proporre al pubblico «un uomo senza i privilegi del semidio e la disinvoltura dell’eroe con il destino prefabbricato e a senso unico. Un uomo che cerca di dare un senso alla sua esistenza…» (Franco Rossi). Bonicelli addirittura azzardò un paragone giornalistico che i ragazzi del duemila non potrebbero afferrare senza l’ausilio di Wikipedia: «Un Dubcek, per esempio, che mette la scheda unica nell’urna del partito comunista cecoslovacco non è molto dissimile dall’Enea che abbandona la spiaggia di Cartagine con la consapevolezza di sacrificare il proprio amore, l’amore di Didone e forse la stessa vita di lei; ma si piega alla macchina della storia». (Nel giro di una trentina d’anni Virgilio passava dalle esaltazioni fasciste alla Praga dei carri armati sovietici?).
È noto che il confronto fra testo letterario e adattamento cinematografico è un terreno d’indagine a cui sono sensibili i comparatisti e gli studi di Classical Reception. Anche per l’Eneide è quasi inevitabile passare in rassegna, come ha fatto Andrea Musio con la sua minuziosa analisi diegetica, le scorciatoie prese dagli sceneggiatori e le divergenze di struttura più vistose in nome della riduzione televisiva e della condensazione temporale: dalla modifica della rotta di Enea – con l’anticipazione della sosta a Butroto (ci torneremo), dove i Troiani approdano in fuga dalla Tracia dopo il macabro prodigio di Polidoro – alla soppressione di alcuni episodi come le Strofadi con l’attacco delle Arpie, o la storia di Ercole e Caco… Raccontare in modo diverso per isolare meglio «i significati più moderni dell’opera». Numerosi sono i punti in cui i dialoghi, discostandosi dalla traduzione-base prescelta, cioè la versione recente di un poeta sperimentale come Cesare Vivaldi, si adattano a questa economia interpretativa. Come quando nell’ultima puntata un Enea di nuovo pacifista, donando le proprie armi al giovane Pallante (il ‘capellone’ Alessandro Dionisi Vici), amatissimo figlio dell’alleato Evandro, gli dice solennemente: «Ti do queste armi in segno di amicizia, ma spero che tu non debba usarle contro nessuno». In realtà è l’intera sceneggiatura di Pallante, tra le figure indimenticabili del poema, ad allontanarsi nettamente da Virgilio: in tv egli non trova la morte nell’impari e perciò eroico duello con Turno – Turno che indossando il suo balteo si consegnerà alla vendetta di Enea –; muore invece in modo inglorioso, con una freccia nella schiena tra le fronde del bosco, per mano della vergine Camilla attirata dalla vista dell’elmo che gli aveva appunto donato Enea.
Forse sarebbe più interessante ragionare su variazioni meno vistose, ma significative per i virgilianisti. Per esempio, l’ammonimento di Eleno a evitare Scilla e Cariddi messo in bocca ad Anchise morente (l’attore serbo Vasa Pantelic); quando Achemenide, un ex compagno di Ulisse rimasto in Sicilia, racconta ai ragazzi troiani il leggendario duello di Enea con Achille, ‘riscrive’ Omero a favore di Enea («una fitta nebbia nascose l’uno all’altro»), in realtà era stato Poseidone a sottrarre alla vista del Pelide il figlio di Anchise per salvarlo da morte sicura; nel sacrificio del giovane Lauso, figlio dello sprezzante Mezenzio (X Libro) troviamo condensato con inevitabili alterazioni, e molte perdite, uno dei luoghi più ammirati del poema; prima del duello con Turno, Enea passa idealmente le consegne al figlio Ascanio (l’attore Arsen Costa) facendolo giurare davanti all’altare dei Penati che «i Latini non dovranno cambiare il loro nome, i loro costumi, i loro dèi» – mentre in realtà si tratta di una promessa di Giove a Giunone, nell’accordo decisivo che porrà fine al conflitto. E così via.
Un caso felice di ristrutturazione del racconto per esigenze drammaturgiche è il prologo della prima puntata, che anticipa i temi del VII Libro. Le riprese aeree della bassa valle del Tevere, i tredici altari di Lavinium (Pratica di Mare), l’agreste Lazio nella sua incontaminata natura, la modestissima reggia di Latino, i rituali dal sapore etnico (Pasolini?), l’armonia pacifica di un popolo di pastori sui quali sta per abbattersi la catastrofe («l’innesto della civiltà asiatica su quella latina» annuncia ‘inclusivamente’ fuori campo Riccardo Cucciolla)… Sì, tra non molto il profugo troiano, esaltato da Giorgio Caproni a Genova come modello di tutti i perseguitati del Novecento, porterà lo scompiglio, l’odio e la guerra. Segnale d’allarme è l’improvviso sciamare delle api – quello delle api è un tema letterario antico potenziato e risignificato da Virgilio in diversi punti della sua opera –, un prodigio inquietante che indurrà Latino a recarsi dal padre Fauno nella selva Albunea per farlo interpretare, in un’atmosfera frazeriana. Altra invenzione d’impatto è l’apparizione simbolica di Lavinia bambina – destinata al matrimonio con l’ancora misterioso straniero – seduta sul trono del padre, e il trono prende fuoco.
Il III Libro dell’Eneide racchiude una delle scene più struggenti del poema, la «piccola Troia» a Butroto, nell’Epiro, dove è finita Andromaca, vedova di Ettore e orfana di Astianatte. Si è risposata con Eleno. Enea resta sbigottito e commosso nel riconoscere la familiare topografia della patria perduta, riprodotta fedelmente in scala. Nello sceneggiato c’è un’inversione, rispetto al testo, che ‘ritarda’ così il suo incontro patetico con Andromaca (Marisa Bartoli) presso la tomba vuota del primo sposo: «Se sei morto, Ettore dov’è?» chiede la troiana al figlio di Anchise credendolo un fantasma. Poi grazie a un riuscito cortocircuito narrativo Enea ‘vede’ in un lampo Ettore adagiato nel grembo di Andromaca, come dopo la restituzione del suo cadavere a Troia: «sardonico abbaglio» (Musio, p. 96) in cui si condensano i più segreti sentimenti di ciascun protagonista di quel dramma ancora palpitante.

La scena del bacio a Cartagine
In questo mio referto non poteva mancare Cartagine, che nel racconto televisivo ha una durata strategica essendo l’epicentro del tormentato ‘romanzo d’amore’: la scena del bacio, durante la battuta di caccia, avviene in una grotta vigilata dalle dee rivali Giunone (Ilaria Guerrini) e Venere (Marilù Tolo), piazzate come angeli sulla capanna del presepe. Anche qui è stata modificata o compressa la sequenza dei fatti, non c’è per esempio la visita di Enea (e Acate) al tempio di Giunone, con lo strazio suscitato dalle pitture sulla guerra di Troia; e Didone incontra per primi i Troiani, accampati sulla spiaggia, ma non lo rivela sùbito a Enea. Secondo Rossi questa interpolazione doveva indirizzare il pubblico – che naturalmente avrebbe parteggiato per la regina abbandonata – a identificarsi con lei, esigendo una «prova d’amore più possessiva e femminile». Intervistata all’epoca dell’Eneide, Olga Karlatos disse senza mezzi termini «Didone doveva ammazzare Enea», un punto di vista che ha alle spalle una folta letteratura anche antica e maschile (Ovidio!) ed è stato attualizzato dal femminismo e dai Cultural Studies: ricordo un libro con diversi interventi di angliste curato anni fa da Paola Bono e Maria Vittoria Tessitore, che purtroppo non ritrovo più in casa. Questa non è certo la sede per riaprire una vecchia polemica anti-virgiliana, mi limito perciò a trascrivere – e sottoscrivere – quel che una classicista italiana di Princeton, Barbara Graziosi, ha osservato in un recente saggio su Licofrone (in Ritorni difficili, Edizioni di Storia e Letteratura) a proposito della maledizione lanciata dalla regina cartaginese prima del suicidio (corsivo mio): «Didone, come vari altri personaggi femminili già citati, sbaglia lettura: lei è ora, e rimarrà anche in futuro, vittima accidentale del fato, ovvero personaggio secondario in una trama che porta alla fondazione di Roma. La protagonista non è lei…». Quanto agli sceneggiatori, essi disponevano di un trio di consulenti letterari in cui figurava Luca Canali (avrà sbagliato lettura anche lui?). Dopo essersi interrogati a lungo, scelsero di ‘non informare’ Enea del suicidio di Didone, non tanto per salvarlo dall’infamia «quanto perché è nel suo carattere immaginare che Didone si piegherà come lui alla necessità storica» (Bonicelli).
Una sconcertante sorpresa, del tutto indipendente dall’esegesi virgiliana, ha a che fare invece con la scenografia di Luciano Ricceri e con l’imponderabile clessidra della Storia. Le scene ambientate a Cartagine infatti furono girate sull’altopiano di Bamiyan, in Afghanistan (una scelta che in qualche modo richiama lo straniamento primitivista di Pasolini), così quando ci sono le inquadrature in campo lungo riconosciamo nella parete rocciosa una delle due enormi nicchie divenute tristemente note per i filmati propagandistici della fucilazione talebana: con la monumentale statua del Buddha ancora al proprio posto! Nota di colore dagli appunti del Servizio Stampa Rai: durante le riprese le donne del luogo chiamate a fare da comparse si rifiutarono di indossare gli abiti da cartaginesi, e così il costumista Ezio Altieri si recò per le strade di Kabul a ingaggiare decine e decine di ragazze hippies, perlopiù americane.
Ben consapevole che il pubblico della sua generazione, così come i quarantenni, aveva assistito dal vivo al revival della Roma augustea orchestrato da Mussolini, Franco Rossi evitò accuratamente di cadere nella trappola della magniloquenza e scelse perciò – come abbiamo visto – di mettere l’accento su valori attuali, socialmente condivisi. Oltretutto i fuochi del Sessantotto lambivano anche la Rai. È in questo senso, come ha sottolineato Pomeroy, che dobbiamo leggere il rilievo dato ai ragazzi della generazione di Ascanio, in cui idealmente si specchiavano le speranze degli anni sessanta nel futuro. Il racconto dell’approdo in Sicilia, nel quarto episodio, che riesce drammaturgicamente leggero dopo il lugubre epilogo toccato all’infelice Didone, è vivacizzato dalla chiassosa gioventù troiana – una gioventù anch’essa molto capellona – sotto la guida paterna di Aceste (l’attore Husein Cokic). Enea vi ritrova, cresciuti nel fisico e nello spirito, gli stessi bambini che aveva salvato da morte atroce l’ultima notte di Troia, sette anni prima. Tra di loro ci sono anche Eurialo e Niso: effettueranno la nota sortita notturna dall’esito tragico, col finale ambientato di giorno però, anziché sotto la luce ‘traditrice’ della luna. L’accento generazionale e quasi studentesco – che ricorda il finale del Fellini Satyricon – culmina nelle scene di ‘passaggio delle consegne’ di cui è protagonista Ascanio. Durante l’assenza di Enea egli non ha timore di ‘correggere’ Aceste a proposito dell’identità delle statuette portate in salvo da Troia: quei simulacri ritraggono Dardano, Teucro e Laomedonte! Glielo confidò il nonno.