Nell’osservare gli animali spesso ci dimentichiamo che siamo a nostra volta oggetto del loro sguardo e della loro curiosità. È proprio l’analisi di questa reciprocità di relazioni a essere il cardine dell’etologia filosofica di Vinciane Despret, docente dell’Università di Liegi, da oltre vent’anni impegnata in una ricerca interdisciplinare volta a comprendere, appunto, «che cosa rispondono gli animali se facciamo loro le giuste domande». Vinciane Despret sarà in Italia, a Bologna, nel fine settimana, ospite della sesta edizione delle Giornate Internazionali di Studi sulla Relazione Uomo-Animale, organizzate da Siua (www.siua.it) e dal suo direttore, l’etologo Roberto Marchesini e quest’anno dedicate al comportamento sociale degli animali.

Cosa significa saper porre le giuste domande agli animali?
Tutto quello che ho imparato sul fare le domande giuste agli animali mi è stato insegnato dagli etologi. Pensiamo al lavoro appassionato e innovativo della primatologa Shirley Strum che, nella sua ricerca, si è posta la domanda cruciale: «nelle loro interazioni sociali, i babbuini quali domande si pongono?». A questo proposito, trovo davvero geniale la definizione della disciplina data dal filosofo Gilles Deleuze, secondo il quale «l’etologia è la scienza pratica dei modi di essere», più specificatamente, è la scienza pratica di ciò di cui sono capaci gli esseri viventi. Qual è la loro forza? In cosa sono veramente dotati? Quegli etologi che sono stati capaci di insegnare cose nuove e inattese hanno in qualche modo seguito questa linea di condotta. La strada opposta era, ovviamente, porre all’animale domande concernenti noi stessi e che non contenessero alcun elemento di interesse per lui, come gli interrogativi inerenti alla gerarchia, o le domande finalizzate a confermare uno schema teorico – quelle che spesso pongono i sociobiologi. O, ancora, questioni alle quali l’animale non ha altra scelta che rispondere con una conferma a ciò che il ricercatore pone come ipotesi.
Vediamo, dunque, sempre più spesso emergere esperimenti in cui gli animali possono scegliere se partecipare o meno al setting, e che non si basano sul deprivarli del cibo per rendere il rinforzo inevitabilmente efficace. Questa tipologia di esperimenti è un ottimo segnale e, al contempo, offre risultati più attendibili. Cambia non solo ciò che sappiamo dell’animale, ma, più in generale, la maniera in cui li pensiamo: ne guadagnano in autonomia, in possibilità di esprimere la propria «agentività».

Questo suggerisce che non vi è ricerca neutrale, ma che lo sguardo dello scienziato è viziato dal proprio modo di vedere il mondo…
Alcuni etologi si sono divertiti nel raccontare come sotto i governi di sinistra gli animali siano stati piuttosto cooperativi, mentre sotto quelli di destra siano diventati più competitivi. Negli anni ’30, il filosofo Bertrand Russell si stupiva di come apparentemente tendessero ad aderire alle ideologie di coloro che li studiavano arrivando a sostenere che «gli animali apparentemente si comportano sempre in modo da provare la correttezza della filosofia di chi li osserva». A conferma di ciò, ricordava come nel XVIII secolo «gli animali furono feroci, mentre sotto l’influenza di Rousseau contribuirono alla spiegazione del culto del Buon selvaggio». Marx fece la stessa osservazione a Darwin quando, nel 1862, scrisse quanto fosse incredibile «vedere come riconoscesse in piante e animali la sua socialità inglese, con la sua tipica divisione del lavoro, le sue rivalità, le sue aperture, i suoi nuovi mercati, le sue ‘invenzioni’ e la sua malthusiana ‘lotta per la vita’».
Per molto tempo, abbiamo rigettato gli studi di Kropotkin con la scusa che si ostinasse a vedere nella natura solo le condizioni favorevoli a quella società anarchica e solidale che egli si augurava emergesse. Intendiamoci, tutto ciò è abbastanza corretto, ma è anche più complesso. Questo tipo di critica spesso dimentica che gli animali inventano le loro società e i loro modi di entrare in relazione, che essi elaborano ambienti ed esperienze di vita diversi e che non obbediscono ciecamente a istinti specifici; in breve, non esiste una natura uniforme né un modo universale di essere corvo, babbuino o megattera.

Al convegno bolognese porterà una relazione dal titolo «Territorializzarsi con gli animali». Cosa intende con questa espressione?
Da qualche anno, assistiamo a un cambiamento delle teorie inerenti alle modalità con le quali gli animali abitano, creano un territorio, costituiscono un «a casa propria», e condividono lo spazio materiale e sonoro. Molte idee relative a come la coabitazione si stabilisca tra gli animali sono limitate, male informate e persino false. Servono nuove considerazioni per comprendere come gli animali si organizzano nello spazio emergente del qui e dell’ora. Questi studi aiuterebbero ad allargare la nostra concezione di abitare il mondo e a immaginare forme alternative di vivere insieme. La mia idea, decidendo di studiare la questione del territorio negli animali, è scoprire altri modi di entrare in rapporto con gli oggetti e con gli ambienti, che non siano basati sull’idea di proprietà, così come oggi la definiamo. In questo periodo, sto esaminando la letteratura sul comportamento territoriale degli uccelli e sto scoprendo con grande entusiasmo che esiste una quantità di modi di occupare lo spazio e organizzarne la ripartizione. Questo potrebbe ampliare il nostro immaginario e aiutarci a sbarazzarci del concetto di proprietà privata così come lo concepiamo fin dal XVII secolo e che si dimostra terribilmente povero, individualista e tossico.

 

BOX CONVEGNO
«Mai come in questo momento storico abbiamo bisogno di riscoprire il valore della cooperazione verso un obiettivo comune e gli animali hanno molto da insegnare». Con queste parole l’etologo Roberto Marchesini sintetizza lo spirito della sesta edizione delle Giornate Internazionali di Studio sulla Relazione Uomo-Animale in programma questo week end al Centro San Domenico di Bologna e dedicate al comportamento sociale degli animali (maggiori informazioni su www.siua.it). L’edizione, patrocinata dal Ministero dell’ambiente, vede la partecipazione di filosofi, antropologi, naturalisti e biologi nell’intento comune di delineare un nuovo modo di vivere nel mondo basato sui principi della collaborazione e della solidarietà.