Alain Schnapp

 

«Mi sono sempre chiesto perché ci siano delle persone che mostrano interesse per le rovine», dice Alain Schnapp, archeologo e professore emerito dell’Università Paris 1 Panthéon Sorbonne, specializzato in territori e città del mondo greco antico nonché in Iconografia. In occasione della recente pubblicazione del volume Une histoire universelle des ruines Des origines aux Lumières (Seuil, pp. 774, euro 49,00), abbiamo conversato con Schnapp per approfondire il senso di una ricerca sviluppatasi durante quindici anni e volta a comprendere il legame tra memoria collettiva, oggetti e monumenti del passato. Quest’opera magistrale, che si colloca in una dimensione filosofica, antropologica e letteraria basata sull’approccio comparatistico elaborato da Jean-Pierre Vernant e Pierre Vidal-Naquet negli anni sessanta del secolo scorso, sarà tradotta in italiano per Einaudi. Da segnalare, del medesimo autore, Rovine. Saggio di prospettiva comparata (Pandemos, pp. 70, euro 10,00), edito nel 2020. Nel 1994, era apparso La conquista del passato. Alle origini dell’archeologia (Mondadori).
In «Ruines» lei ha ripercorso la storiografia relativa alla nozione di antichità, da Oriente a Occidente, dalla Preistoria all’Illuminismo, fino alla nascita della moderna archeologia. Che differenze ha riscontrato, tra i vari popoli analizzati?
La prima questione da chiarire è se si possa parlare di rovine nell’ambito di civiltà che non avevano un nome per definire le vestigia del passato. I megaliti assumono manifestamente una funzione simbolica, la quale si perpetua nel tempo. Ma non c’è una memoria orale o scritta che aiuti a decifrarne il significato. Per avvicinare lo «spirito» delle rovine proprio alle civiltà neolitiche è indispensabile scavare le tombe o gli allineamenti. Gli studiosi hanno rilevato, ad esempio, come il sito di Carnac (nella Bretagna del sud, ndr) o il circolo di Stonehenge abbiano una relazione con l’astronomia, evidenziando anche l’importanza che – tenuto conto dell’investimento umano necessario per la loro costruzione – dovevano rivestire in seno alla collettività. Un altro aspetto interessante riguarda gli oggetti appartenenti alle società sprovviste di abitati: nell’Australia del XX secolo, tribù perennemente in movimento alla ricerca di cibo depositavano in luoghi di pellegrinaggio oggetti totemici chiamati churinga, i quali venivano trasmessi da una classe di età all’altra. Quindi, da un lato osserviamo un iper-monumentalismo, dall’altro l’assenza di monumenti che caratterizza le civiltà oceaniche, africane e mesoamericane. Da qui, la constatazione che – contrariamente a un pensiero consolidato – le rovine non sono una creazione occidentale ma un’adattazione dell’Occidente a quel legame materiale con il passato che può esplicarsi attraverso manufatti di diversa natura.
Qual è, invece, il rapporto con le rovine delle civiltà mediorientali e dell’Estremo Oriente?
In area egiziana, sumerica e accadica l’idea del passato è rappresentata dalla tensione tra materiale e immateriale, laddove l’immateriale è costituito dalle opere che i poeti dedicano ai grandi uomini, agli avvenimenti rilevanti e ai monumenti più maestosi. Quest’attitudine ha influenzato i Greci, i Romani e poi anche noi contemporanei. Il verso di Orazio che recita Exegi monumentum aere perennius si trova già, in una forma simile, nella poesia egiziana del II millennio a.C. Quindi, c’è un «modello» che si è sviluppato in una sorta di scambio e di simbiosi tra Oriente e Occidente. Per quanto riguarda l’Estremo Oriente, nella cultura cinese non è il monumento ad assumere importanza ma il posto che questo occupa nello spazio, e la memoria alla quale si riallaccia. Memoria che è accompagnata, anche in questo caso, da componimenti poetici. Nell’XI secolo d.C., all’epoca della dinastia Song, gli eruditi di entrambi i sessi solevano recarsi nei luoghi delle grandi battaglie e dove venivano innalzate stele di cui decifravano le iscrizioni, aggiungendo un commento o piantando fiori e alberi. Nella pittura classica cinese, il monumento è intatto, immemoriale. Ciò che cambia è il paesaggio circostante, l’erba che non cresce più, l’epigrafe che diviene illeggibile.
Nella nostra epoca le rovine possono essere fonte di memoria «positiva» o provocare sofferenza e rigetto. In fondo, succedeva la stessa cosa anche nell’antichità.
È vero. Questo sentimento ambivalente si riscontra già nei testi delle prime tradizioni letterarie. In Mesopotamia, quando il sovrano voleva edificare un nuovo santuario si recava in un sito più antico e faceva scavare il suolo per «purificarlo», allo scopo di affermare la sua legittimità e grandezza rispetto agli antenati. In Egitto non rileviamo l’idea dello scavo ma quella del contatto con il passato. I re dicono: «quello che il mio predecessore ha costruito in legno, io lo costruisco in pietra», mentre i sacerdoti sono investiti del compito di restaurare le antiche cappelle funerarie. I monumenti, però – come scrivono i poeti – non durano in eterno. Gli uomini incaricati di occuparsene – dopo qualche generazione – scompaiono, lasciando le tombe divelte. Colui che memorizza o trascrive versi è invece immortale, perché il poeta è più affidabile degli architetti e degli scultori.
Un tema di grande attualità è quello dell’identità associata alle rovine.
Quest’argomento ha assunto rilevanza da una trentina d’anni ed è legato, almeno in Europa, a una sorta di crisi provocata dal cambiamento demografico dovuto alle migrazioni e dal disfacimento della politica. Ma, in realtà, la riflessione sul posto che l’uomo occupa nello spazio e nella Storia esiste da sempre. Dal Medioevo a oggi, ci si chiede se i francesi discendano dai Franchi, dai Galli o dai Romani. O da tutti e tre i popoli. Per mediare tra le origini franche e quelle germane, nel VII secolo d.C. è stato inventato un personaggio, Francion (Francus in latino, ndr), eroe dei Franchi, uno dei nipoti di Priamo dal destino simile a quello di Enea. Quando Nicolas Fréret affermò che far risalire gli albori della Francia alla regalità troiana era un’assurdità venne imprigionato per sei mesi alla Bastiglia.
Abbiamo visto con la devastazione dei siti archeologici mediorientali da parte dello Stato Islamico fino a che punto l’identità culturale sia un concetto ideologicamente manipolabile.
I Talebani hanno abbattuto i Buddha di Bamyan perché l’Occidente li aveva spinti a preservarli in nome della transculturalità. A Palmira è accaduta la stessa cosa. L’Isis ha ridotto in frantumi i templi di Baalshamin e di Bel non perché edificati da culture occidentali, ma perché testimonianze di un passato che interroga le nostre comuni radici. Quando i re dell’attuale Iran, tra XI VIII secolo a.C., presero il controllo delle città babilonesi, s’impossessarono dei tesori e delle statue delle divinità e li deportarono nei loro santuari. Quest’atto somiglia alle distruzioni perpetrate a Bamyan e a Palmira, anche se, in quel contesto antico, le statue degli dèi non subivano demolizioni iconoclastiche. Un altro caso è riconducibile al giuramento di Platea: agli inizi del V secolo a.C. le città greche federate promisero di combattere l’invasione del re di Persia assicurando che non avrebbero tradito la parola data e non avrebbero ricostruito i templi distrutti dai Persiani, affinché la presenza dell’assenza ne ricordasse la barbarie.
Quindi pensa che anche in Siria o in Iraq non debbano essere ricostruiti i monumenti cancellati tra il 2015 e il 2016 dai terroristi islamici?
Ritengo che sia opportuno intervenire qualora l’anastilosi sia possibile. Altrimenti la Carta di Venezia deve essere rispettata. Tuttavia, ci sono paesi dove l’archeologia è particolarmente sviluppata e sostenuta dallo Stato – come il Messico – in cui allo scavo segue immediatamente la ricostruzione. Nel mondo cinese e nipponico, invece, non è importante garantire la trasmissione di monumenti o oggetti ma dei savoir-faire che li hanno generati. I veri monumenti «viventi», infatti, sono le persone: maestri della porcellana, del legno o del metallo.
Alcuni governi europei ambiscono a ridare ai monumenti una forma che si avvicini il più possibile a quella delle origini. Fenomeno che si osserva con l’interminabile cantiere di restauro del Partenone o con il recente progetto di ripristino dell’arena del Colosseo. Cosa pensa al riguardo?
Ribadisco che le carte internazionali del Restauro devono costituire un limite e una garanzia. Non è più concepibile agire come fece Arthur Evans a Cnosso. Nella vicina Malia – scavata dagli archeologi francesi nel XX secolo –, si può invece riconoscere l’autenticità di un palazzo minoico non reinventato. Piuttosto, va sviluppata la ricostruzione teorica che, oltretutto, è un concetto occidentale. Nel XV secolo, Raffaello già lottava contro l’erosione delle rovine grazie al disegno, con l’obiettivo di lasciare testimonianza dei monumenti che venivano scoperti nella Roma dei Papi. Oggi la fotografia, la fotogrammetria e l’archeologia digitale sono fondamentali per documentare ogni fase dello scavo e restituire graficamente i contesti.
Ha lavorato a lungo in Italia. Come vede, in generale, i siti archeologici del nostro paese?
A dir il vero, sono preoccupato per l’abbandono di quel concetto di tutela che è stato uno dei maggiori contributi dell’Italia alla cultura mondiale. L’Italia era, assieme alla Scandinavia, uno dei paesi dove la gestione del patrimonio veniva garantita da strutture territoriali imperniate sull’idea che un paesaggio contemporaneo non sia tale se non preserva le antichità. Tutto questo è andato perduto con la separazione dei musei dalle soprintendenze, e con la nascita dei parchi e dei musei autonomi. Mi sembra che, a causa di quest’evoluzione, la salvaguardia dei monumenti e dei siti archeologici corra un rischio eccessivamente elevato. E mi stupisce che la società civile non reagisca. In Italia, inoltre, non c’è un organismo per la ricerca archeologica preventiva e ciò, nell’imminente futuro, costituisce una minaccia. D’altra parte, Charles de Montalembert sosteneva che «la memoria del passato non diviene inopportuna che quando la coscienza del presente è vergognosa».