Ora che gli effetti della serrata mondiale si vanno delineando, appare vieppiù chiaro che questa sarà una crisi di dimensioni epocali, ben più della recente «Grande Recessione» e finanche maggiore della più nota «Grande Depressione» degli anni Trenta. Se è presto per avere stime attendibili di ciò che accadrà all’economia nei prossimi mesi – e di quale nome verrà dato a questo crollo – appare però già chiaro che vi sarà bisogno di una cura ricostituente radicale.

In Europa, si stima che il calo del Pil sarà ben maggiore di quello del 2008-09. In Italia, si dice, sarà doppio, come già doppio lo fu allora. E allora ci chiediamo: perché per il nostro Paese il crollo deve essere maggiore, più esteso e profondo che per altri? Perché, lo abbiamo detto, siamo arrivati a questo appuntamento con la Storia già feriti, già invalidi, già menomati. Se il Paese fatica a rispondere è perché in troppi non hanno i mezzi per reagire. E «ammortizzatori», sussidi, bonus e quant’altro non saranno sufficienti a dare ossigeno a un’economia e a un corpo sociale boccheggiante.

Mentre ancora contiamo i morti e il contagio non è stato fermato, l’incertezza ci attanaglia e, disorientati, viviamo alla giornata. Così sembra fare il governo, soverchiato da un’emergenza che richiederebbe una risposta «storica», in balia dei piccoli intrighi che ne hanno segnato l’operare fina dalla nascita. I decreti partoriti finora non sono che aspirine somministrate ad un’Italia malata, per farle abbassare la febbre, senza nessuna velleità di indirizzo.

Le prospettive restano cupe, gli indirizzi lasciati ad un’azione di vera ricostruzione tutta da definire. Ma mai come ora questo sarebbe il momento di una vera azione di programmazione che guardasse avanti, oltre. Un Paese che aveva già livelli di disoccupazione alti – il doppio di quelli europei – e altissimi per i giovani. Un Paese con un tasso di povertà relativa pari ad un quarto (!) della popolazione, con una spesa per consumi concentrata nei decili più ricchi e un reddito nelle fasce più abbienti, come e più delle altre nazioni.

Ma, soprattutto, un Paese immobile, stratificato, con disuguaglianze di reddito e di opportunità sclerotizzate, cementificate dalla scarsa mobilità sociale, dalle corporazioni, da un’istruzione elitaria, da un mercato del lavoro asfittico – e non per poca «flessibilità» – da un settore privato che non investe e un settore pubblico elefantiaco e burocratico. Se l’Italia subirà più di altri il contraccolpo sarà a causa dei suoi colpevoli ritardi.

Tutte le economie sono state colpite da un’onda d’urto senza precedenti, nel giro di pochissimi mesi. Ma la nostra lo è stata avendo un corpo sociale frammentato, un tessuto produttivo sfilacciato, con enormi disparità territoriali e settoriali. Non solo non eravamo preparati dal punto di vista sanitario, ma eravamo già esposti, con una domanda asfittica e sperequata e un sistema industriale arretrato in molte sue parti, impreparato. Se le disuguaglianze sono solo un effetto dell’azione combinata del mercato lasciato a se stesso e dell’assenza di politiche di correzione, sono quelle che oggi ci fanno subire il colpo con più intensità. E se vogliamo risollevarci, dovremo attaccare alla radice quelle disparità.

La politica pare non sapere guardare avanti. Prebende ed esenzioni non la faranno stare a galla. Dovremmo, invece, immaginare investimenti privati e pubblici – ce lo ricordano Ciocca, Viesti e altri – cominciando dalla ricerca per finire con le infrastrutture. Dovremmo mettere mano non solo alla redistribuzione del reddito, ma guardare a monte, rimettendo in moto l’arrugginito ascensore sociale ormai fermo da decenni.

Se parliamo di programmazione, un termine ormai caduto in disuso, è perché è solo guardando al medio periodo e ai nodi gordiani che andranno recisi che si potrà rimettere in piedi quell’Italia che ora piange lo schiacciamento delle classi medie, i redditi al palo, i giovani qualificati che non trovano lavoro, che se ne vanno o rinunciano a cercarlo. Se l’Europa barcolla, ciò non ci esime dal pensare, noi per primi, a come vogliamo uscirne. Perché questa volta non basteranno le politiche monetarie e quanto l’Europa vorrà mettere in campo. Se non affronteremo quei problemi che ci hanno azzoppato negli ultimi decenni, la nostra corsa non potrà che avere il fiato corto. Perché non sia, questa, l’occasione per far uscire, davvero, l’Italia dall’Europa, solo perché è rimasta indietro, vittima delle sue disuguaglianze croniche.