Quale è la situazione del settore bancario dopo lo scoppio della pandemia?
Il governo dovrà certamente occuparsi nei prossimi mesi di molte questioni relative al comparto. Non mancano certo a Draghi le competenze in materia, ma c’è certamente qualche dubbio sulla dimensione politica delle sue scelte.

Le banche europee si trovavano in uno stato di debolezza già prima della pandemia, come mostrano il confronto con le banche Usa (in media due volte più redditive e che ora sono già in forte ripresa) e i depressi valori di Borsa. Molti istituti sono sottocapitalizzati, poco redditivi e poco competitivi. La loro presenza è ridotta in Asia e debole nelle nuove tecnologie, le aree di maggiore sviluppo del business. Intanto la Bce prevede che la redditività tornerà ai livelli del 2019 solo nel 2022, se tutto va bene.

Problemi specifici si pongono per le banche italiane, poco efficienti, ancora più in ritardo sulle tecnologie, toccate a suo tempo da scandali, poco capaci di indirizzare le risorse verso gli impieghi più utili, con un alto livello di crediti deteriorati (peraltro nel 2020 si è riusciti a ridurli del 40%), con un rapporto costi/ redditi elevato, con tassi di interesse al minimo.

Quando cesseranno gli aiuti di Stato (sono 400 i miliardi di sostegni pubblici al credito solo in Italia) la situazione si potrebbe deteriorare molto; le imprese sono sempre più indebitate e molte di esse si trovano in una situazione drammatica. Caleranno certamente gli investimenti. Le banche saranno più selettive e quindi la ripresa economica sarà più difficile; tanto più che la Bce prevede che i crediti inesigibili si collocheranno nell’eurozona tra i 1000 e i 1400 miliardi di euro. Speriamo di meno.

Sempre la Bce stima che i prestiti si potrebbero contrarre nella zona euro sia nel 2021 che nel 2022, nonostante che gli istituti siano pieni di denaro, proveniente sia dalla stessa Bce che dai depositi. Nel 2020 questi ultimi sono aumentati nel nostro paese di ben 160 miliardi (+19%) e sono ancora cresciuti nel primo trimestre 2021. Nell’Eurozona i risparmi dei privati si sono incrementati nel 2020 di 500 miliardi. La gente ha anche paura. Un problema parallelo è quello di riuscire ad incanalare tali risorse verso impieghi produttivi.

Intanto la pandemia ha accentuato tendenze già in atto nell’occupazione a causa dello sviluppo dell’home banking, l’avanzare del fintech e dell’automazione, le pressioni al taglio dei costi. Fioccano le chiusure di agenzie e le riduzioni di personale. In questi giorni CaixaBank annuncia il licenziamento di 8.300 dipendenti. In Italia è comunque da segnalare l’accordo Abi-sindacati, che prevede nel periodo 2021-2023 nuovi assunti in numero pari alla metà delle persone licenziate.

Le fusioni e il caso Unicredit-MontePaschi
Negli ultimi decenni gran parte del glamour del settore in Europa è andato alle fusioni. Così il numero degli istituti si è anche da noi fortemente ridotto. Ma esse non hanno contribuito molto al miglioramento del quadro. Si stima che il 2021 sarà ancora un anno di consolidamenti. Il Covid, moltiplicando le incertezze, spinge gli istituti a risolvere i loro problemi con la via che sembra più facile.

Ma con le fusioni le grandi banche aumentano i rischi sistemici e, in caso di crisi, non ci sarà forse paese che avrà le risorse sufficienti per salvarle. Peraltro, noi avremmo bisogno di avere, accanto a quelli grandi, anche dei piccoli istituti. Tutte le energie concentrate sulle fusioni si potrebbero meglio impiegare in maggiori investimenti nei nuovi mercati e nelle nuove tecnologie.

Quello del Monte dei Paschi è stato un caso spia, a suo tempo, del fallimento di un’intera classe dirigente; per quanto riguarda la sua probabile acquisizione da parte di Unicredit oggi, i dirigenti di quest’ultima banca mostrano ritrosia solo per farsi dare quanti più soldi possibili dallo Stato.

Tale fusione migliorerà la situazione del sistema finanziario italiano? Si accentuerà in realtà il carattere duopolistico del settore (la quota di mercato di Unicredit in Italia si avvicinerà al 20%), si gonfierà l’ego e il portafoglio di qualche manager e di qualche società di consulenza Usa, ma ne soffriranno le altre banche e i clienti, oltre che le casse dello Stato e i lavoratori, con qualche licenziamento in più, mentre Unicredit, con una pericolosa distrazione, avrà sprecato l’occasione di utilizzare le sue risorse umane in direzioni più utili.

Il Montepaschi, al contrario di quanto chiede Bruxelles, non potrebbe restare invece una banca pubblica? Riuscendo, insieme alle altre presenze sempre pubbliche, dal Mediocredito Centrale-Banca del Mezzogiorno a tutte le attività finanziarie comprese nel perimetro della CDP, a diventare un centro di indirizzo dell’economia? Tanto i soldi per privatizzare l’istituto alla fine li dovremo mettere tutti noi, come al solito. Ma le voci in favore di un Montepaschi pubblico appaiono molto flebili.