«Lavoreremo bene insieme». Ha il tono di una promessa, fatta soprattutto a se stessi, la nota che Enrico Letta e Matteo Renzi hanno diffuso alla fine del primo incontro «ufficiale», ieri pomeriggio a palazzo Chigi. Un comunicato breve e «congiunto», nello stile dei vertici diplomatici più delicati: «È stato un incontro lungo (un’ora, ndr), positivo e fruttuoso che conferma il nostro comune impegno». Ma se l’impegno è certo, il fatto che punti nella stessa direzione è assai improbabile.

Il «quasi» segretario del Pd (l’incoronazione domenica) ha chiuso la campagna elettorale insistendo sulle «urgenze» del Pd. Ieri ha ripreso il concetto parlando di «priorità». Ma se le «priorità» contenute nel pacchetto che ufficialmente Renzi ha consegnato a Letta non destano troppe preoccupazioni, per essere vaghe e condivisibili – taglio dei costi della politica, un’altra idea di Europa e un piano per il lavoro – è la priorità delle priorità che finirà col mettere a rischio il «comune impegno»: la legge elettorale.

Al «quasi» segretario del suo partito, Letta ha dovuto anticipare il senso del discorso che terrà domani in parlamento, quando prenderà corpo quella «verifica» che Forza Italia ha chiesto dopo l’uscita di Berlusconi dalla maggioranza. La legge elettorale e le riforme costituzionali prenderanno molto spazio – essendo ormai comunemente accettato che sia il governo a intromettersi nelle materie di purissima competenza parlamentare. Letta le presenterà come due ruote dello stesso carro, quello del governo, che deve riuscire a tirare avanti altri 18 mesi. Ma nella realtà sono due leve che spingono in direzioni opposte. Le riforme costituzionali hanno bisogno di tempo, di tutto il tempo che manca all’appuntamento con le urne immaginato da Napolitano, la primavera 2015. Crollato il castello del ministro Quagliariello e dei suoi saggi, le riforme sono ora ridotte a poche cose sulle quali c’è un sostanziale consenso: riduzione dei parlamentari e riforma del bicameralismo (che Renzi riassume seccamente in «abolizione del senato», un po’ troppo). Ciò non di meno è difficile immaginarle come riforme «condivise», in un parlamento che per buona parte dell’opposizione è addirittura «illegittimo» dopo la sentenza della Corte costituzionale sul Porcellum.

La legge elettorale, secondo Renzi, potrebbe invece essere fatta subito: l’abbinamento con le riforme ha già prodotto il nulla di fatto del 2013. «Per noi il percorso è uscire dalla logica del rinvio», ha detto chiaramente il sindaco, e oggi lo ripeterà ai gruppi parlamentari. Un primo rinvio però ci sarà di certo, Letta domani spiegherà che prima di ogni iniziativa bisognerà leggere le motivazioni della Consulta. Dunque se ne parla a gennaio, quando il comitato messo in piedi in tutta fretta al senato per evitare lo «scippo» della legge elettorale – sarebbe altrimenti già finita alla camera – dovrebbe produrre una proposta. Renzi però non intende aspettare e ad appena 24 ore dalla vittoria alle primarie è riuscito – con la collaborazione di Sel e M5S – ha far mettere in calendario la riforma del Porcellum anche alla camera. A questo punto i presidenti Boldrini e Grasso dovranno trovare un’intesa che eviti incidenti più seri; al senato potrebbe finire il disegno di legge del governo sulle riforme.

La differenza tra camera e senato è che a Montecitorio il Pd (grazie al Porcellum) ha i numeri per attuare il piano annunciato da Renzi: muovere da una sua proposta cercando poi l’intesa con gli altri partiti, comprese le opposizioni di Sel, 5 Stelle e Forza Italia. A Renzi interessa una legge che sia fortemente maggioritaria, il recupero del Mattarellum gli andrebbe bene solo con una correzione per ridurre ulteriormente la quota proporzionale (era al 25%), trasformandola in un diritto di tribuna. Per questo il «quasi» segretario non ha mantenuto la promesse di presentare la sua riforma entro le primarie, preferisce avere le mani libere per alleanze «variabili» che sanciscano contestualmente la fine della maggioranza di governo. Contro questo schema, Alfano ha riproposto ieri un «patto» da stringere prima tra le forze di governo, aprendosi ancora a una legge «bipolare» (che però non vuol dire necessariamente maggioritaria). È lo stesso schema di Letta: cercare un’intesa prima a palazzo Chigi e poi portarla all’esterno. E nel frattempo rinviare.