La mostra Le Corbusier Viaggi, oggetti e collezioni alla Pinacoteca Agnelli di Torino (fino al 5 settembre) e il saggio Le Corbusier in India Villa Sarabhai, Ahmedabad, 1951-1956 di Maria Bonaiti con Alessandra Rampazzo (Electa, pp.120, euro 25,00) confermano, da due diverse angolazioni, che sono ancora molte le occasioni di ricerca intorno all’opera dell’architetto svizzero-francese. La mostra prende spunto dalla sua vita privata di collezionista; il libro è la storia di una villa ideata quando ormai giungono al pettine i nodi della civilisation machiniste, ovvero del progetto universalistico delle teorie del Moderno alle quali Le Corbu diede essenziali contributi.
Partiamo dall’esposizione torinese, ideata e curata dall’artista Cristian Chironi (Nuoro, 1974) con la collaborazione della Fondation Le Corbusier. Già l’infilata delle pipe e degli occhiali tondi fa intendere che ciò che vedremo è una parte del mondo degli oggetti che Le Corbu, insieme a sua moglie Yvonne, custodiva nel suo appartamento parigino al 24 rue Nungesser et Coli, da lui progettato tra il 1931 e il 1934 e abitato fino al 1965, anno di morte.
Terminato nel 2018, il restauro della casa-atelier restituì custodite in scatole una serie di objects à rèaction poètique: ossi di macelleria, teschi di animali, conchiglie, pezzi di legno e ferro, sassi, vetri, ecc., che ora sono ben visibili dentro le grandi teche in mostra. Insieme alle fotografie, riviste e depliant, ai vasi e alle brocche in ceramica o in terracotta provenienti da un po’ tutte le parti del mondo, alle sculture africane e alle statuette antropomorfe, e a una ridotta presenza di quadri (che s’incontrano all’inizio) di André Bauchant, Nikos Hadjikyriakos-Ghika e Louis Soutter, ci si trova catapultati dentro il «museo individuale» lecorbusieriano.
Forse, per comprenderlo appieno, sarebbe stato utile avere accanto i reportages fotografici di Willi Rizzo (Paris Match, 1953) e di Renè Burri (DU, 1961), magari anche gli scatti di Albin Salaün (1935): un peccato che in catalogo (Corraini) queste immagini siano state riprodotte in numero così scarso. Oltre la sezione, un po’ scontata, sulla passione di Le Corbu per il mondo dell’automobile e per il Lingotto, con la sua «leggendaria pista» sul tetto della fabbrica, è la sua collezione privata, da lui nominata semplicemente «C.P.», a costituire il focus principale dell’esposizione.
È dalla raccolta dei suoi object trouvès che si giunge al ginevrino Mundaneum (1929), il «museo infinito» dalla forma di ziggurat a spirale quadrata che cresce intorno a un pilastro centrale, così come dalla pista di Mattè Trucco si arriva all’autostrada sopra il lungo nastro della nuova edificazione del Plan Obus per Algeri (1930-’33). Il Mundaneum è un «museo della conoscenza» che, come spiegò lui stesso a Torino in una conferenza ICOM nel 1961, è «un immenso mezzo comune» che incontra «il museo dell’individuo», giacché è l’individuo che scoprendo oggetti un po’ dovunque può «liberare da se stesso spontaneamente le proprie facoltà di gusto, discernimento, giudizio, entusiasmo», dando così sostanza alla sua collezione privata. Collezione che «non è fatta di oggetti d’arte, tantomeno arte decorativa».
È questa, come altre considerazioni critiche sul destino dell’architettura moderna, aguidare Le Corbusier ad Ahmedabad nella costruzione del blocco sospeso del museo della città, il Sanskar Kendra (1951-’57). Con la stessa risolutezza affronta la villa per Manorama Sarabhai, la vedova di Suhrid, uno degli otto figli del facoltoso industriale tessile e filantropo Ambalal Sarabhai: spazio dell’abitare ma al tempo stesso «luogo esclusivo dedicato alle arti» (Bonaiti). A parte le soluzioni tecniche per rispondere al clima e lo studio per il migliore impiego dei materiali, migrano da Parigi in India una serie di elementi architettonici appartenenti alla poetica lecorbusieriana. Per «appaesarli» Le Corbusier si affiderà a un giovane Balkrishna Vithaldas Doshi, già inquadrato nel suo studio di rue de Sèvres per seguire alcuni edifici pubblici di Chandigarth.
Nella Villa Sarabhai c’è innanzitutto la volta catalana poggiata su setti murari già presente nella sua casa-atelier di rue Nungesser et Coli e in seguito nella residenza Roq et Rob a Roquebrune-Cap Martin (1949-’55) e nelle due di Maisons Jaoul a Neully-sur-Seine (1951-’56). Inoltre, nonostante le contrarietà di Madame Manorama, gli spazi al piano terra delle due unità che in più campate compongono la villa sono aperti e flessibili in «una inedita relazione tra interno ed esterno», come scrive Doshi in Le Corbusier. The Indian Incarnation (2012).
Ora c’è però una questione centrale che il saggio pone, anche se non la esaurisce del tutto. Consiste in ciò che già l’architetto inglese James Stirling intuì sottoponendo a revisione critica l’eredità del maestro: riguarda «gli elementi plastici e objects trouvès molto pittoreschi» che entrano nel lessico di Le Corbusier e che «consumano dall’interno la poetica purista».
Ciò ci riporta alla citata conferenza torinese. Per ottenere «lo splendore delle forme, lo splendore delle materie», dirà agli astanti, non occorre alcuna scienza, ma solo il gusto personale, ovvero «il sentimento in sé». La preferenza per il béton brut e il mattone, l’uso dei muri solo dove necessari, l’avere tolto di mezzo la facciata e i fregi per assicurare un «dispositivo standard» semplice ed efficiente per l’abitare o il lavoro, sono ciò che persuade «le dee a scendere dall’Olimpo con le loro ali» e non solo per visitare il museo, ma anche per trovare ristoro nella villa.
Nel particolareggiato racconto delle due autrici sulle vicende di quest’ultima, molte sono le figure che compaiono sulla scena. Una in particolare, però, merita di essere citata: l’artista sardo Costantino Nivola, con il quale Le Corbu intesse una profonda amicizia e che incontra nella sua casa a Springs (Amagansett, New York) negli stessi anni dei suoi viaggi in India.
È singolare che Chironi, anch’egli sardo, per il suo progetto My house is a Le Corbusier, che ha in parte originato la mostra al Lingotto, abbia avuto la scintilla da una casa disegnata da Le Corbusier per Nivola a Orani, ma costruita abbandonando il progetto dell’architetto poiché «troppo stravagante, senza né porte né finestre».
È da lì che Chironi ha ideato il suo Grand Tour in un ideale dialogo con Le Corbusier attraverso installazioni site-specific in alcune famose case del maestro. Del progetto originario di Orani, però, ancora nessuna traccia.