Il neoliberismo non è stata una pavloviana reazione padronale alla crisi del capitalismo che nella seconda metà degli anni Settanta raggiunse il suo acme. Le formule messe in atto da Margaret Thatcher e da lì a poco da Ronald Reagan volevano chiudere, ripristinando il potere perduto del capitale, la parentesi dei tanto declamati «trenta anni» di sviluppo economico garantito da un «interventismo» dello Stato, che non solo regolava il conflitto tra capitale e lavoro, ma era un soggetto economico a tutto tondo. Formule, quelle thatcheriana e reaganiana, che conquistarono però un robusto consenso sociale. Il pensiero neoliberista, che occupò allora il centro della scena pubblica senza abbandonarla nei decenni successivi, era tuttavia stato elaborato proprio in quei gloriosi trent’anni dentro alcune università americane e numerosi think thank lautamente finanziati da capitalisti sempre più insofferenti verso quella «rivoluzione mondiale» (il Sessantotto) aveva sottoposto a critica le geografie mondiale e le feroci gerarchie sociali del capitalismo. Il neoliberismo prende così forma e si sviluppa in quel centro di gravità permanente del sistema-mondo capitalista – l’asse atlantico tra Europa e Stati Uniti – scosso da una radicale politicizzazione dell’insieme dei rapporti sociali che mette in discussione le fondamenta del cosiddetto compromesso fordista. E fornisce il lessico per un modello di società che ha le caratteristiche di una controrivoluzione tesa a chiudere le porte a qualsiasi rinnovato progetto di superamento del capitalismo.

È di questo modello di società che il volume La nuova ragione del mondo di Pierre Dardot e Christian Laval tratta. Un saggio impegnato e impegnativo, perché definisce una realistica e convincente genealogia del neoliberismo, definendone le continuità e le discontinuità con il pensiero liberale «classico».

Come sempre accade in questi casi, spesso la continuità offusca i termini della discontinuità e viceversa. Ne esce comunque un affresco degli ultimi quarant’anni di storia del capitale tra i più significativi. È cioè un saggio che costringe a ripensare con radicalità proprio la politica della trasformazione, prendendo congedo da ogni ipotesi di «riforma dall’interno» del capitalismo globale. La costellazione teorica dei due autori è subito dichiarata. Da una parte c’è Marx e la sua analisi del capitalismo in quanto rapporto sociale di produzione; dall’altra c’è il Michel Foucault dei seminari sulla nascita della biopolitica e dell’ermeneutica del soggetto. Il neoliberismo è dunque interpretato come il tentativo di sviluppare da parte del capitale di una vera e propria teoria generale della società. Dardot e Laval sostengono che dall’Europa e dagli Stati Uniti è una ideologia che si è diffusa in tutto il mondo, attraverso un processo di continuo adattamento, fino al paradosso che non sono pochi gli analisti che definiscono la Cina come un paese neoliberista. La nuova ragione del mondo non prefigura cioè un pensiero unico, bensì è una weltanschauung che si nutre per accumulo di differenze: spaziali, di sistema politico, di ruolo dello Stato. Già questo elemento rendono il volume di Dardot e Laval un buon viatico per una storia critica del neoliberismo, allorquando questo modello di società è entrato in una crisi su scala planetaria. La radicalità della sua crisi non coincide, tuttavia, con l’eclissi di quel modello di società. Paradossalmente, il neoliberismo prospera con la crisi, al punto che la finanziarizzazione dell’economia (e la conseguente finanziarizzazione dei diritti sociali) ha subito, dal 2008, un’accelerazione. Inoltre, come dimostra un prezioso saggio di Sandro mezzadra sulle nuove geografie del capitale (www.euronomade.info) le differenze tra realtà nazionali svolgono un ruolo di stabilizzazione del sistema.

L’uso disincantato che in questo libro di Dardot e Laval fanno di Marx e Foucault è propedeutico a una lettura che non sempre riesce a intravedere i punti di frizione, di contraddizione, di conflitto dentro e contro il neoliberismo. Possiamo per questo inscrivere il saggio di Dardot e Laval in un filone importante di analisi del capitalismo contemporaneo. Significativo, ad esempio, è l’analisi della figura dell’individuo proprietario che propone. Da questo punto di vista, è un’«astrazione reale», avrebbe detto Marx, che spiega tanto le politiche economiche di dismissione del welfare state, quanto la riduzione della natura umana a un capitale umano che tende a valorizzarsi nelle relazioni sociali in cui è immerso. Uomini e donne diventano così capitale culturale quando entrano nella fabbrica della formazione, stipulando debiti con le università per accedere a un sapere, fattore indispensabile per entrare nel mercato del lavoro, dove l’individuo proprietario indossa le vesti dell’imprenditore di se stesso». Anche gli affetti devono vedere all’opera un singolo dotato di un certo capitale relazionale, che deve essere regolato da un lex mercatoria dove i singoli devono trarre il massimo vantaggio. Sono tutti elementi che le scienze sociali hanno abbondantemente analizzato nel corso degli anni. Merito di studiosi come Dardot e Laval di averne svelato la funziona regolatrice, dove lo Stato non scompare, ma assume funzioni e un ruolo «pastorale», alimentando una crescita del sistema giuridico (ogni aspetto della vita sociale deve essere regolata) e una riduzione della politica a pratica amministrativa.

Se un limite il volume di Dardot e Laval manifesta è la sottovalutazione di come la figura dell’individuo proprietario ha svolto un ruolo performativo nel rapporto tra capitale e lavoro vivo. Da questo punti di vista, la precarietà – esistenziale e nel rapporto di lavoro – diviene la condizione indispensabile affinché il neoliberismo posso divenire la «ragione del mondo». In altri termini, l’individuo proprietario è per natura precario. Garantendo così l’esercizio del potere da parte del capitale sulla società.