Contrariamente alle vulgate oleografiche dei sussidiari su tablet, le rivoluzioni sono fiori fragilissimi per quello che di più autenticamente nuovo contengono: spesso nella foga dei combattimenti per la sopravvivenza e nella spietata giostra guidata solo dalla brama di potere, i valori più importanti vengono sotterrati velocemente. Riaffiorano a volte dopo molti decenni, come fiumi carsici, dimostrando che le rivoluzioni hanno una storia lunga. C’è veramente qualcuno che pensa che, per esempio, le rivoluzioni protestante, americana, francese, sovietica, cinese, cubana ed iraniana abbiano dato subito i frutti concreti migliori delle loro idealità, spesso così diverse dai modelli precostituiti? Obama, il ’68, Weimar, l’onda verde ed il Che sono alcuni casi che dimostrano di no.

Molto di quello che circola su questa rivoluzione dai contorni spesso ambigui e rischiosi è dato da sineddochi trasformate in verità totali da propagandisti o tifosi in crisi d’astinenza. É un fatto che la massa della gente scesa in Maidan Nezalezhnosti (un’altra Piazza Indipendenza!) non ne poteva più di un regime corrotto, rapace ed inefficace ed è anche un fatto che fra le squadre d’assalto dei manifestanti fossero particolarmente visibili i fascistoidi ultranazionalisti ed antisemiti.

Eppure è un altro fatto che uno dei caporioni più accesi e nazionalisti abbia avuto la famiglia deportata nei Lager nazionalsocialisti o che una delle cinture difensiva nella piazza fosse organizzata da un ebreo israeliano di ritorno per la sua altra patria.
La grande speranza di questa rivoluzione, considerata da fonti vicine al teatro d’azione molto diversa da quella Arancione, è in una minoranza sociale relativamente più evoluta che in Russia, la quale non aspetta più un padre od una madre salvifici. Prova ne è che il ritorno della controversa Yulia Timoshenko non è stato quel trionfo politico atteso. C’è il progetto di trasformare questo moto popolare in un’istanza di controllo democratico permanente perché quella parte di popolazione non vuole più dipendere dal potente di turno, scrutando con che piede si sia alzato al mattino per capirne l’umore. Sembra di sentire echeggiare le parole di Leon Trotsky a favore di una rivoluzione permanente e sappiamo tutti come sono finite nelle mani del crudele Stalin.

Il nemico peggiore di questa rivoluzione non è tanto o soltanto un presidente che si vuole riprendere, grazie alle baionette di Putin, un potere sancito peraltro da regolari elezioni, ma quella casta di oligarchi, nati dal saccheggio dei beni pubblici durante l’indipedenza, e già pronti ad essere i terminali di una finanza internazionale d’alto bordo, responsabile delle grande crisi economica del 2006 e tutt’ora perdurante. Quella crisi en passant contribuì ad ammazzare la Rivoluzione Arancione: danni collaterali degli animal spirits capitalistici.

Adesso tutti gli occhi sono puntati sulla guerra di nervi che si conduce in Crimea. Perché il presidente russo ha scelto questa mossa azzardata e brutale? Le ipotesi possibili sono:
ha reagito secondo lo schema georgiano del 2008 non capendo la natura dei moti di Kiev;
ha temuto che la rivoluzione ucraina potesse essere un elemento destabilizzante per il proprio governo;
considera idealmente l’Ucraina ancora un pezzo di Russia e teme di perdere questa posizione rispetto ad un allargamento strisciante che ha inglobato alla fine anche Romania e Bulgaria.

Forse elementi combinati hanno influito in questa decisione che lascerà certamente tracce nelle relazioni con la Nato, gli Usa e l’Europa.
È comunque chiaro che la storia delle truppe di autodifesa russofone in Crimea non regge ad un esame più attento. Osservatori locali sottolineavano la cura dell’operazione, la presenza di armi contraeree spalleggiabili molto moderne (i temibili 9K38 Igla, SA-18 Grouse) e il dispiegamento di forse speciali del GRU, riassegnate al potente servizio segreto militare appena nel 2013. Le fonti sono contrastanti sull’impiego o meno di marinai già stanziati a Sebastopoli o in altre caserme.
Passato senza conseguenze il diversivo psicologico di un ultimatum militare russo, c’è la possibilità di negoziare un accordo politico che preveda un governo di scopo e di garanzia per tutti per riformulare la costituzione e la legge elettorale in modo da votare a dicembre. C’è la necessità di ricomporre la legalità costituzionale, il rispetto dei diritti umani e della vita dei manifestanti ed il diritto all’autodeterminazione in modo politicamente viabile e soltanto un accordo tra le parti può evitare spaccature irrimediabili.
* Analista politico e strategico