Riveste un eccezionale carattere documentario la raccolta di una ventina di vedute delle cave di marmo di Carrara, eseguite tra il 1810 e il 1813 su carta a china acquarellata da Saverio Salvioni (1755-1833). «Diverse vedute, scriveva Salvioni, le quali per renderle sempre più interessanti, curiose e veridiche, ornai di figure, con le quali espressi tutte le operazioni meccaniche che usano i Carraresi nello scavo, nel trasporto e nel lavoro di questa bella pietra». Vi si possono osservare gli uomini intenti alle escavazioni o applicati a misurare blocchi o a saggiare i nuovi filoni marmiferi da aggredire. Ma è, insieme, lo scenario delle alte pareti e dei precipizi apuani che Salvioni descrive. Così puoi vedere restituita alla scala del ‘vero’ la proporzione che fa minuscoli gli uomini a fronte dei vasti crinali e sull’aprirsi degli enormi precipizi al sommo dei quali agiscono.

Immagini ove trovi il gusto di un’epoca che, nel 1757, fu segnata dalla Philosophical Enquiry sull’origine delle idee del ‘bello’ e del ‘sublime’, con la quale Edmund Burke diffonde in Europa una percezione della natura considerata nella sua esorbitante grandezza e potenza, a fronte della fragile e transeunte condizione umana. Riguardo al sentimento del ‘sublime’, possiamo assumere come esemplare del porsi di Salvioni innanzi a quei luoghi impervi il foglio che rappresenta le Cave di Fantiscritti e Strinato. Da un cumulo di lastroni vedi un cavatore che si volge al compagno il quale, ben lontano, lassù, inerpicato su un picco gli risponde alla voce. Dietro di lui si staglia una parete ove uno scalpello mille e mille anni fa ha tracciato lettere e tre figure astanti, un’orma intatta a conferma di antichissime presenze tra quei sassi poderosi. Altri uomini scorgi in sosta, un piccolo gruppo di sei. Confabulano, in piedi e seduti, e alle loro spalle incombono aguzzi spigoli di pietra.

Di fronte, esteso, scusso, bianco, ostruente un sipario di marmo par sospeso alle nubi. Fermo nel peso irremovibile delle sue quinte serrate, una zavorra che impedisce di quelle nuvole il corso e fa della loro impalpabile materia un corpo minerale. Pure l’effetto che la veduta ottiene non comunica, se non assai edulcorato e felpato, il senso dello spaurimento che nasce tra quelle altezze e quegli orridi. Devi ritrovarlo, se ancora resta, come un retrogusto, dopo la ricognizione nel tempo lento che l’immagine ti impone quando la osservi. Salvioni usa una quasi uniforme tonalità mielata nella stesura a pervadere d’una luce senza contrasti accentuati la scena. Un ‘sublime’, dunque, addolcito, se così posso dire, a vantaggio d’una narrativa puntuale sì, ma che indugia più nel descrivere che nell’evocare. E ‘sublime’ è evocazione della dismisura che reca apprensione e turbamento, e ti coglie indifeso compiutamente e d’un tratto.

Accosto alle vedute di Salvioni le fotografie che Ilario Bessi (1903-1986) ha scattato nei medesimi luoghi, in quelle cave e tra quei cavatori, e in specie quelle che risalgono al decennio tra il 1945 e il 1955. Bessi è un artista di profonda sensibilità, affinata nel corso degli anni nello assiduo scambio
con scultori come Arturo Dazzi e Arturo Martini. E poi, dopo la guerra, per citare solo gli universalmente noti, con Zadkin, Arp, Lipchitz. E Giacomo Manzù e Henry Moore. Con Moore, tra l’altro, cura nel 1968 una monografia su Giovanni Pisano per l’editore londinese Thames and Hudson.

Nelle immagini fotografiche di Bessi il fondale ‘sublime’ proprio di quei luoghi declina, i cavatori all’opera sotto una luce candida, in ‘prometeico’. Dal ‘sublime’ all’‘epico’. Vedi nei corpi e nei volti la composta, diuturna fatica sopra gli immensi blocchi, a riquadrare, a levigare, a conferire forma. Ho sotto gli occhi Cavatore in cima ad una brancata, una inquadratura memorabile segnata dalla luce che taglia a filo di lama l’angolo a perpendicolo di una altissimo blocco sul quale scorgi scuro, in controluce, minuscolo, un cavatore che si sporge sul bordo del pinnacolo contro un cielo immacolato. L’orlo delle montagne corre lontano, a perdita d’occhio.