Un uomo che, a quanto pare, aveva spinto giù sua moglie dal balcone della loro casa, uccidendola, ha gettato nel vuoto da un viadotto anche sua figlia. Le ha seguite, successivamente, nel loro volo, a schiena rivolta verso il basso. Si è allontanato dal punto di partenza del lancio fatale, guardando la scena di orrore di cui era parte e non artefice. Spinto all’indietro da una forza sopraffattrice, come la figura alata del quadro di Klee Angelo Novus, di cui Benjamin scrisse: «Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi».

La polizia non ha riscontrato «problematiche psichiche di rilievo» in grado di spiegare l’accaduto che, secondo il questore, è stata una «tragedia della comunità» che ha colpito una «comune famiglia italiana». Parole inconsapevolmente, tragicamente ironiche: è la «comune famiglia» il terreno di cultura delle catastrofi compiute da cittadini irreprensibili, ben adattati ai stereotipi sociali e da nessuno visti come «folli», bombe a orologeria che improvvisamente esplodono.

Si è prigionieri di una concezione del vivere che silenzia i comportamenti incongrui, bizzarri, disturbanti, di cui non sa comprendere il senso, né accogliere la domanda. Conforma le relazioni a schemi comportamentali impersonali, puliti e ordinati, svuotandole di emozioni e di significato. Come saper riconoscere le aree di implosione della materia relazionale che si condensano prima di scoppiare? In che modo depotenziare, disinnescare i meccanismi di spersonalizzazione che distruggono i legami familiari, i più vulnerabili all’assenza di uno scambio affettivo e erotico?

Sono questioni di cui le facoltà di Psicologia dovrebbero farsi carico, se solo chi le gestisce non andasse nella direzione contraria. Domina la loro gestione il fattore “produttivo”: l’elaborazione quantitativa di dati comportamentali, codificabili, misurabili, manipolabili. Si sosta sulla superficie del lago, scrutando con sofisticati attrezzi le condizioni meteorologiche, e se, inaspettatamente, emerge il mostro acquatico, si scappa via senza rendersi conto che sia stata la propria dabbenaggine a crearlo.

Si sta imponendo un determinismo attivo, un’ideologia munita di formidabili strumenti tecnici. Più che spiegare ogni cosa in termini di causa e effetto, riduce il campo della conoscenza a ciò che può essere costruito a tavolino, secondo una tecnica di predeterminazione che lo rende riproducibile. Una controriforma della cultura e della scienza, di cui la tecno-psicologia è il centro di gravità, usa il calcolo probabilistico e la matematica dell’evidenza (gli algoritmi sono il frutto del loro connubio) contro la scoperta (la dialettica tra visibile e invisibile), rendendo il sapere conformista, sterile.

Oggi i tecnocrati dei comportamenti operano indisturbati una pulizia etnica nei confronti degli psicoanalisti nell’università. Seguono criteri “oggettivi” per i quali un lavoro pubblicato su una rivista psicoanalitica, fatto da chi le ragioni soggettive della vita le conosce, attraverso una lunga esperienza di relazione con le persone sofferenti, vale un decimo di un lavoro pubblicato su una qualsiasi rivista del nuovo stile accademico, fatto da chi il dolore psichico lo conosce dai manuali o dai test diagnostici. Sono ragionieri dell’esistenza che trasformano gli esseri umani in entità spettrali, virtuali.

Nulla ci salverà se continueremo a compiacere le forze dell’alienazione che fanno indietreggiare perfino gli angeli custodi, quando non li trasformano in sterminatori.